intervista a Daniele Garrone
(professore di Antico Testamento alla Facoltà valdese di teologia di Roma)
«La Riforma si scostò dall’ostilità antiebraica basata sulle accuse agli ebrei di portare la peste, di rapire e uccidere bambini cristiani, di profanare ostie. Non diminuì, invece, l’avversione teologica all’ebraismo. La polemica di Lutero si sviluppò e crebbe di toni intorno al problema dell’interpretazione dell’Antico Testamento».
Il dibattito sui Quaderni Neri e quindi sull’antisemitismo di Martin Heidegger ha suggerito la lettura storica «da Lutero a Heidegger ». Da Lutero alla Germania nazista?
L’idea di filo diretto non regge a una ricostruzione storiografica e non è neppure nuova: fu sostenuto da nazisti, da alcuni pochi teologi protestanti filonazisti e, dal 1945, da forti critici della Germania, argomentando che quelle erano le radici e che quindi non poteva che finire così. Nel più virulento dei suoi scritti sugli ebrei, nel 1543, Lutero aggiunge una richiesta esplicita alle autorità affinché prendano provvedimenti antiebraici. I suoi consigli assomigliano in alcuni punti a ciò che avvenne nella «notte dei cristalli»: bisogna confiscare i loro libri e bruciarli, chiudere le sinagoghe, mettere gli ebrei a fare lavori manuali… Anche altri riformatori (Bucero, Bullinger) si pronunciarono contro la tolleranza verso gli ebrei e il Talmud fu bruciato a Roma, a Campo dei Fiori, nel 1553. Dopo il XVI secolo, gli scritti antiebraici di Lutero furono ristampati solo nella grandi edizioni di studio e non ebbero perciò una larga diffusione; furono pubblicati in edizione manuale solo durante il nazismo. Al punto che ci furono alcuni nazisti che rimproverarono che quel Lutero, che presentavano come a loro congeniale, fosse stato tenuto nascosto.
Quindi come si deve guardare questo rapporto tra Riforma e storia successiva?
La cosa è molto più complicata. La Riforma del XVI secolo ereditò e mise in discussione solo in minima parte la tradizionale visione di Israele sviluppatasi molto presto nella storia del Cristianesimo, secondo cui l’unica chiave di lettura legittima dell’Antico Testamento è il Nuovo Testamento; i veri eredi spirituali del popolo d’Israele e biblico sono i cristiani e la Chiesa. Questa è un’eredità comune. La Riforma si scostò dall’ostilità antiebraica basata sulle accuse agli ebrei di portare la peste, di rapire e uccidere bambini cristiani, di profanare ostie. Non diminuì, invece, l’avversione teologica all’ebraismo. La polemica di Lutero si sviluppò e crebbe di toni intorno al problema dell’interpretazione dell’Antico Testamento. Il confronto con gli ebrei divenne per lui una sorta di «battaglia finale per la Bibbia», per usare l’efficace formulazione di uno storico contemporaneo. Lutero abbandona l’esegesi medievale con i suoi «quattro sensi», per basarsi soltanto sul senso letterale o storico: è attraverso quelle parole, e non al di là di esse, che si ode la Parola di Dio. Inoltre, Lutero propugnò il ritorno all’originale ebraico. Gli altri riformatori, ancor più debitori all’Umanesimo, condivisero questo ritorno alle fonti, alla hebraica veritas. Si svilupparono scuole di ebraisti cristiani e anche protestanti.
Lutero, dunque, cerca nelle Scritture in ebraico la Parola di Dio, e ve la trova come annuncio di Cristo, dalle prime pagine della Genesi al profeta Aggeo, come del resto faceva l’esegesi anteriore. Per lui, che ritrova Cristo nell’ebraico dell’Antico Testamento, il sapere che gli ebrei leggono quei testi in quella lingua con esiti del tutto opposti, diventa inquietante, minaccioso; per lui, si può spiegare soltanto come volontaria e ostinata falsificazione della chiarezza delle Scritture. Di qui la sua polemica, ossessiva, rabbiosa: penso che questa animosità fosse legata al fatto che tutto il discorso teologico di Lutero si volesse legato soltanto alla Scrittura, come dire «senza rete», senza possibili appigli nella tradizione, nel magistero, nella filosofia; solo la Scrittura e in particolare quella Bibbia ebraica a cui dedicò la maggior parte del magistero. Gli ebrei, però, non vi trovavano ciò che a lui sembrava imporsi già sul piano letterale.
Se gli stereotipi antigiudaici erano diffusi e largamente condivisi a quel tempo, perché sull’argomento Lutero è oggi più chiamato in causa di altri?
Da un lato c’è il fatto che, a parità di atteggiamento nei confronti degli ebrei, Lutero fu più prolifico quanto a scritti tematici. La distinzione tra Legge ed Evangelo, in seguito, fu spesso intesa come contrapposizione tra l’economia delle opere e legalismo, e l’economia della grazia. E qui era facile polemizzare con gli ebrei. Sul fronte riformato si lavorò piuttosto con l’idea di un unico patto, cioè con l’idea che fin dall’inizio Dio avesse concluso un’unica alleanza con l’umanità e con Israele, poi compiuta in Cristo ed estesa anche alle genti, senza però che questo rinnegasse o abolisse le stipulazioni anteriori. Anche in questa linea tuttavia, era ovvio che il cammino dell’unica alleanza continuava nella comunità cristiana, non nel popolo ebraico non cristiano. È però vero che, sul fronte riformato (si pensi al puritanesimo) si sviluppò un certo filo-ebraismo. Mi sembra che esso dipenda soprattutto dal fatto che le comunità riformate – spesso minoritarie, perseguitate, diasporiche – ritrovarono nell’Antico Testamento la loro stessa storia di schiavitù, di esili e diaspore e pensarono di poter rivivere, dalle Valli valdesi all’America e al Sud Africa, nel bene come nel male, quella che era stata la storia della «chiesa di Israele», giudicata e perdonata da Dio, condotta verso la sua terra.
Quindi questo filo diretto tra Lutero e il nazismo?
Non c’è nessun filo diretto né da Lutero a Hitler, né da Lutero a Heidegger. Anche il rapporto tra Riforma e modernità intesa come libertà di coscienza, stato laico e democrazia è complesso e la storia ci aiuta a scorgere questa complessità. Certamente ci sono dei prodromi di modernità nella Riforma, ma non dei nessi univoci e diretti. Proprio Lutero, che ha questa visione dell’ebraismo, nel mettere al centro del discorso l’individuo che diventa persona in quanto perdonato da Dio, fa emergere un nuovo soggetto. Un soggetto che può leggere la Bibbia, che sopra di sé non ha più nessuno se non il Dio che lo ha perdonato. Certamente questo è un prodromo di modernità. Perché questo si articolasse poi in libertà di coscienza concepita come diritto fondamentale di ognuno… ci volevano altre conquiste. L’aver abolito la scelta religiosa come abbandono del mondo e acquisizione di uno stato particolarmente meritevole, certo questo è alla base dell’emergere della moderna concezione della professione, del lavoro come vocazione. Il tuo lavoro non è più semplicemente un accidente che devi fare per campare ma è il modo in cui tu rispondi alla tua vocazione e in cui tu sei sacerdote: questa è la visione del sacerdozio universale in Lutero. Essendoci un unico sacerdozio che è quello di Cristo, noi siamo tutti sacerdoti, e quindi per servire Dio come lo devono servire i sacerdoti non c’è bisogno di fare il pastore, non c’è bisogno di diventare prete (com’è noto il pastore non è un sacerdote, ma è una persona che ha studiato alcune cose che altri non hanno studiato e a cui la comunità delega quel ruolo). Lutero in uno scritto lo chiama lo ius commune christianorum, tutti i cristiani hanno lo stesso ius. Alcune funzioni di questo ius sono affidate dalla comunità a qualcuno in particolare. Insomma, tra noi oggi e il XVI secolo non ci sono «fili diretti» e univoci, ma la storia.
Antisemitismo oggi: è qualcosa di nuovo?
C’è un dibattito concettuale e storiografico su antigiudaismo e antisemitismo. Io sono per la distinzione dei due termini. Da un lato proprio perché sono contrario a una apologetica che sostenga che l’antisemitismo razziale moderno non ha nulla a che fare con il tradizionale antigiudaismo cristiano che fu solo teologico. Dall’altro, credo non si possa sostenere che l’antigiudaismo cristiano, di Lutero o di altri, abbia prodotto la politica dello sterminio. La linea prevalente nel Medioevo fu anzi quella di conservare il popolo ebraico, in condizione subordinata, come «popolo testimone» del giudizio di Dio e della verità del cristianesimo. La polemica religiosa e ideologica propagandata in omelie e libri di teologia, predicata dal pulpito, è altra cosa rispetto a questo razzismo biologico, «scientifico»; ma è nella creazione e diffusione dello stereotipo dell’ebreo che consiste la pesante responsabilità del cristianesimo. Non solo nelle leggende calunniose, ma anche in discorsi «per bene», l’identità cristiana si alimentava di una controfigura negativa, l’ebreo onnipresente nei discorsi cristiani anche quando non presente sul territorio in cui questi discorsi avvenivano. L’antigiudaismo teologico è stato il risvolto della incapacità di reggere l’irriducibile alterità di Israele, dal quale proveniva, da parte di una chiesa che conquistava a sé il mondo intero. Purtroppo ci è voluta la Shoah, bisogna dirlo, perché si cominciasse a prender coscienza di queste dinamiche.
Quindi in che senso antigiudaismo e antisemitismo dopo la Shoah?
L’antigiudaismo c’era prima, e potrebbe sopravvivere pur avendo respinto l’antisemitismo di stampo razzista, biologista, insomma nazista. Le nostre domande di oggi rispetto ai cristiani e la Shoah non si limitano al solo problema etico di quelle generazioni di cristiani che sottovalutarono o ignorarono o accettarono o sostennero il nazismo e la sua politica razziale. Il problema nostro è di vedere quale continuità e quali rotture noi istituiamo con un discorso che comincia nel II secolo e che ha prodotto lo stereotipo dell’ebreo a partire da categorie cristiane. Che identità cristiana noi possiamo oggi articolare riconoscendoci debitori verso le Scritture d’Israele, ma sapendo che noi ne diamo una lettura e che ce n’è un’altra che noi non dobbiamo e non vogliamo demonizzare? In questo senso il nostro compito è quello di lavorare sull’antigiudaismo che ci portiamo dietro e con cui dobbiamo fare i conti.
Come farlo nel dopo Auschwitz?
Non per ridurre o attenuare, ma per accentuare la nostra responsabilità, io accentuerei la storicità di Auschwitz. Se diventa questione metafisica, allora per così dire non possiamo farci niente. Invece Auschwitz è una cosa enorme, storica, che può essere ripetuta. Perché si può emulare una creazione umana. È stata fatta, e quindi può essere rifatta, da gente come noi. Da gente che era fanatica e in preda all’odio. Da gente che aveva dei pregiudizi e quindi diceva che va bene così. Da gente che sapeva e non voleva vedere ecc. Io sostengo che c’è almeno un’unicità di Auschwitz per quello che riguarda l’eredità cristiana. Ad Auschwitz non sono morti soltanto ebrei, ma anche omosessuali e zingari, per citare solo altre due categorie. Ma la differenza è che degli omosessuali non si è parlato al cuore del discorso cristiano, degli ebrei invece sì. Dobbiamo leggere storicamente Auschwitz e non farne un monumento metafisico, altrimenti diviene un problema di Dio e posso stare solo a guardare. Attorno ad Auschwitz c’era gente come noi, con delle idee, delle azioni e delle omissioni.
intervista a cura di Claudio Paravati
(pubblicato su Confronti di aprile 2015)