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Cosa ci insegna il genocidio armeno

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24 aprile 1915-24 aprile 2015: cento anni dall’inizio del genocidio che esattamente un secolo fa sconvolse il popolo armeno. Ne ha parlato di recente papa Francesco, suscitando le ire del presidente Erdogan e di gran parte dell’establishment turco, ed è bene occuparsene anche in Italia, soprattutto alla vigilia di una ricorrenza importante come quella del settantesimo anniversario della Liberazione.

Intendiamoci: non c’è alcun nesso fra l’eroismo dei partigiani italiani e il milione e passa di armeni e cristiani sterminati per dar vita al progetto del “panturchismo”, ossia a uno Stato turco etnicamente omogeneo, ma un punto in comune c’è ed è bene metterlo in risalto: alla base di tutti gli scempi del Novecento, infatti, c’è sempre stato un desiderio di annientamento delle idee prima ancora che degli uomini. Caddero gli armeni per ciò che rappresentavano e per ciò che erano: dei convinti oppositori del progetto dei Giovani Turchi di modernizzare la Turchia in modo sconsiderato ed estremista, a scapito delle altre popolazioni e delle minoranze, e come loro caddero gli ebrei per mano nazista e, successivamente, i partigiani per mano delle SS e dei repubblichini, dopo vent’anni di repressioni e barbarie fascista. E lo stesso sarebbe avvenuto in Africa al termine della decolonizzazione, con l’avvento di regimi corrotti e sanguinari cui sono seguite, in alcuni casi, guerre civili la cui ferocia ha lasciato sul campo milioni di morti.

Il genocidio armeno, pertanto, è stato l’antesignano dei massacri successivi, l’apripista di un concetto non nuovo nella storia dell’umanità ma mai messo in pratica con tanta abiezione, ossia lo sterminio di un intero popolo, senza pietà, senza distinzioni, instillando l’odio fra la propria gente al fine di creare un consenso verso atti riprovevoli e di agevolare il compimento di crimini sempre più efferati. Non solo: il genocidio armeno, in virtù dello stretto collegamento fra l’esercito turco e quello tedesco, dovuto all’alleanza fra Germania e Impero Ottomano, fu la prova generale, se vogliamo l’“università”, delle atrocità naziste, con pratiche come le marce della morte di cui caddero vittime prima gli armeni e, durante il secondo conflitto mondiale, gli ebrei e gli altri deportati nei lager.

Fu allora, dunque, che venne messa in moto e perfezionata la macchina della violenza sistematica; fu allora che nacque il concetto di costruzione e alimentazione del nemico, non confrontandosi più col soldato del fronte opposto che spara dall’altra parte della barricata bensì con uomini, donne, bambini e persone inermi, la cui unica colpa è quella di appartenere a una razza, a una fazione politica o, semplicemente, di avere una visione del mondo diversa dalla nostra.
Fu allora, lo ha ricordato ancora papa Francesco, che un intero popolo venne massacrato per il solo fatto di esistere e fu sempre allora che si sperimentò, per la prima volta, la complicità dell’indifferenza, con un’Europa troppo impegnata a combattere sui propri fronti per occuparsi delle sofferenze degli armeni; senza contare che fu proprio allora che la carneficina generalizzata entrò a far parte dell’immaginario collettivo e finì con l’essere sostanzialmente accettata, al punto che alcuni storici ipotizzano persino un collegamento fra la mattanza degli armeni da parte dei turchi e l’accettazione dello sterminio degli ebrei da parte dei tedeschi. Anzi, diciamo che più che di un’accettazione, in entrambi i casi, si è trattato di vero e proprio consenso, svanito solo di fronte alla catastrofe totale, alla miseria, alla distruzione: nel primo caso di un impero ormai agonizzante, nel secondo di un Reich che, per fortuna, non è riuscito nel proposito di diventare millenario.

Venendo all’oggi, il genocidio armeno insegna a noi giornalisti a fare un po’ meglio il nostro mestiere, anzitutto iniziando a chiamare le cose con il loro nome e, in secondo luogo, riflettendo seriamente sulle prospettive di una modernità che vede il diffondersi di una guerra mondiale divisa in più parti, col costante rischio che le varie tessere dell’orrido mosaico, prima o poi, si ricongiungano, componendo un mostro che molti credevano di essersi lasciati per sempre alle spalle.
Questo è l’insegnamento della commemorazione della strage armena e questo è il messaggio cruciale che ci invia papa Francesco, contrastato dai turchi non tanto per rinverdire un orgoglio nazionale del quale, date le circostanze storiche ormai acclarate, loro stessi hanno ben poco da vantarsi quanto per nascondere le responsabilità concrete della Turchia nell’esplosione della Terza guerra mondiale, in particolare attraverso il sostegno indiretto assicurato, in vari modi, all’ISIS e alla sua missione genocidiaria nei confronti dei cristiani e degli sciiti.

In poche parole, i cristiani pagano oggi come allora e i nuovi armeni sono gli sciiti, le minoranze yazide e chiunque osi anche solo mettere in discussione il progetto del Califatto. Una realtà dura, inconfessabile, impossibile da ammettere senza subire conseguenze durissime sul piano internazionale, sfidata e messa in luce da un Papa che ha fatto della rivelazione della realtà la sua ragione di vita nonché il fondamento della sua predicazione teologica. Per questo spaventa, per questo viene contrastato, come del resto è capitato a tutti coloro che nella storia hanno tentato di unire i popoli in un unico messaggio di fratellanza, rispettoso delle diversità e dei valori di ciascuno, anziché incitarli a rivolgere le armi gli uni contro gli altri.


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