di Giancarla Codrignani
Per piacere, qualcuno dovrebbe informare papa Francesco e la Segreteria della Cei che perfino alla Banca mondiale esiste un Gender Action Plan, in cui la «Gender equality» viene definita «smart economics». Per non parlare dei PhD in «Women’s and Gender Studies» o dell’Erasmus Mundus che si occupa degli stessi Women’s and Gender Studies in cooperazione con sette università europee – tra le altre l’Università di Bologna – e altre nord e sud-americane.
Perfino l’Associazione italiana di Psicologia chiede che si promuova una cultura che favorisce la relazione e la nonviolenza. Dico questo perché, mentre dire «spuzza» crea un neologismo di buona efficacia mediatica, la manifestazione di ostilità nei confronti del gender mostra un mancato aggiornamento su una materia che la Chiesa cattolica può contestare solo se ne conosce la filosofia e le scuole. Perché il gender riguarda in primo luogo il genere femminile; potrebbe valere anche per il maschile se l’uomo si accorgesse di essere un «genere». Il termine ordinariamente tutti lo hanno incontrato alle elementari, dove la morfologia della lingua ha un gran bisogno di imparare il gender perché si impara che «maestro» fa regolarmente «maestra», mentre «ministro» rivolto a una donna con la desinenza in -o non è ancora errore blu.
A Napoli il 21 marzo il papa ha accusato come «colonizzazioni del pensiero» non le discriminazioni del femminile, ma «la teoria del gender, che è uno sbaglio della mente umana e fa tanta confusione». Di rincalzo il cardinal Bagnasco (presidente della Conferenza episcopale italiana) ne ha approfittato per ribadire che la teoria del gender pone «la scure alla radice stessa dell’umano per edificare un transumano… nascondendosi dietro valori veri come parità, equità, autonomia, lotta al bullismo e alla violenza, promozione, non discriminazione», invitando a «non farsi intimorire da nessuno». Perché – sempre parole di papa Francesco – «la famiglia è sotto attacco».
Sarà opportuno fermarsi un momento. Perché, se è vero che «il Signore ha ispirato questo Sinodo sulla famiglia» (e, date le trasformazioni ormai antropologiche del costume, tutti sono chiamati a riflettere sui nuovi assetti della società umana), il Signore non può volere, almeno in coerenza con i suoi comportamenti, che la Chiesa cattolica rifiuti di redimersi dall’essere stata di un solo genere, quello maschile.
Citando dalla fonte di informazione più comune, Wikipedia ricorda che «il sesso (sex) costituisce un corredo genetico, un insieme di caratteri biologici, fisici e anatomici che producono un binarismo maschio/femmina; il genere (gender) rappresenta una costruzione culturale, la rappresentazione, definizione e incentivazione di comportamenti che rivestono il corredo biologico e danno vita allo status di uomo/donna… Il rapporto tra sesso e genere varia a seconda delle aree geografiche, dei periodi storici, delle culture di appartenenza. I concetti di maschilità e femminilità sono quindi concetti dinamici che devono essere storicizzati e contestualizzati». A parte che questo tipo di studi risale alla formulazione dell’antropologa Gayle Rubin nel 1975, la diffidenza nei confronti della «cultura di genere» nella Chiesa cattolica non è nuova e, per quanto le donne cortesemente abbiano fatto conto di niente, si è associata all’altra parola inquietante (oggi perfino obsoleta), «femminismo». Benedetto XVI ne aveva così tanta paura che non esitò a commissariare le suore americane della Leadership Conference of Women Religious. Nonostante una composizione onorevole dell’annosa vertenza, a qualcuno è venuto in mente di denunciare come «provocazione non solo alla Santa Sede» l’attribuzione del premio Oustanding Leadership Award alla docente di teologia sistematica suor Elizabeth Johnson, autrice del libro The Quest for the Living God («La ricerca del Dio vivente»), giudicato in contrasto con «l’autentica dottrina cattolica». Il cardinal Kasper ha commentato che «anche San Tommaso d’Aquino fu criticato, quindi Elizabeth Johnson è in buona compagnia… [perché] la Chiesa non è un’unità monolitica». Ma non tutto è rientrato nel buon ordine nel cattolicesimo.
I movimenti integralisti – ormai apertamente ostili al nuovo pontificato – hanno impugnato la «teoria del gender» come cavallo di battaglia delle loro «sentinelle» perfino nelle scuole, perché mette in discussione i valori di quella visione fondamentalista della vita che ritengono fondata sul primato del cristiano maschio ed eterosessuale che si sposa per procreare. Se il papa ha osato dire che «non siamo conigli», qualche problema si pone.
Papa Francesco va dunque messo in guardia, perché la filosofia e la teologia delle donne (cristiane comprese) sono a loro volta incompatibili con interpretazioni che riducono la loro pur esaltata presenza nella storia del mondo alla funzione procreativa. Pertanto il Sinodo sulla famiglia dovrà prevedere qualche aggiornamento radicale perché i duecento anni di ritardo denunciati da Carlo Maria Martini su questa materia si sono fatti particolarmente pesanti. La Chiesa, che ha mal digerito Galileo, arranca dietro aggiornamenti scientifici che portano su frontiere ancor più problematiche le acquisizioni di Darwin e Freud. Anche le donne – da decenni – denunciano qualche perplessità sulla previsione della riproduzione extracorporea: esistendo già la crioconservazione del materiale riproduttivo e la formazione degli embrioni in provetta, mentre l’utero artificiale pur oggetto di studio da almeno trent’anni è ancora un’ipotesi, forse dovremmo cercare di capirne qualcosa di più prima di averne paura.
D’altra parte, con buona pace dei professionisti maschi, è stata la cultura delle donne a mettere in luce l’importanza non esclusivamente biologica ma culturale della corporeità e della responsabilità dell’essere umano in quanto portatore di sessualità. Tuttavia i sistemi moderni non hanno del tutto dimenticato di essersi definiti nel patriarcato e ignorano che la cultura femminile non è «complementare» (aggettivo che piace alla Chiesa ma che ammette la discriminazione, essendo complementari sia 45 e 45, sia 1 e 89), ma «altra»: non per biologia, ma per qualità, non per sesso, ma per storia e gender.
È ovvio che, di conseguenza, viene posto in discussione il concetto di «natura»; ma rifletterci non solo fa bene all’igiene mentale (in particolare della Chiesa cattolica che imponendo il celibato esce per prima dalla naturalità), ma diventa necessario: il materialismo attuale non è quello di fare ingegneria genetica, ma di presumere fondamenti veritativi. La natura umana è essenzialmente cultura: siamo mammiferi, non «bestie». È naturale l’uso della forza, della sopraffazione, della guerra; ma non possiamo più accettarli come retaggio senza riscatto del peccato originale. Sono «naturali» anche i bisogni procreativi e associativi, ma solo nella loro continua trasformazione ed evoluzione. Possiamo avere indulgenza sulla barbarie di chi, in nome del possesso del sepolcro di Cristo, ha sparso così tanto sangue «infedele» che ancora ne nascono vendette; possiamo soffrire la memoria delle esecuzioni di torture e condanne a morte come se nessuno conoscesse il Vangelo; possiamo stupirci per il rifiuto ancora opposto a chi è uguale ma nero o gay o povero. Alla base c’è la prima delle discriminazioni, quella contro l’altro genere umano, quella che ha reso la famiglia il luogo in cui si commette il maggior numero di reati, che sopprime la libertà femminile, che in tante società ne nega la dignità e il magistero.
Siamo solo nel 2015 e fin qui abbiamo prodotto una storia ben miserabile della natura, avvilita e privata della propria fantasia originaria, impauriti di poter inventare il bene con la conoscenza. Non possiamo perseverare immutati. Soprattutto come fanno tutti gli integralisti che negano il futuro anche alle religioni, che possono morire se non si alimentano nella crescita della comprensione del futuro.