Matteo Renzi, stavolta, ha commesso un grave errore. Come tutti i condottieri che non si accontentano di vincere ma vogliono sempre stravincere e umiliare gli avversari, ieri il segretario-premier è incappato nel primo, vero scivolone da quando è assurto al ruolo di novello Principe d’Italia. Perché passi l’insulto rivolto a Stefano Fassina appena divenuto segretario, passi la barbarie compiuta nei confronti di Enrico Letta, passi la totale cancellazione della “questione morale” berlingueriana dall’orizzonte di un partito che ha ormai preso il posto che fu del PDL per quanto riguarda indagati e personaggi coinvolti in vicende tutt’altro che commendevoli, passi tutto, ma le dimissioni di Roberto Speranza da capogruppo alla Camera, nel corso di una drammatica riunione dei deputati del PD sull’approvazione, entro maggio, dell’Italicum, costituiscono uno strappo destinato a lasciare il segno.
Il giovane deputato bersaniano, infatti, non è un “Che Guevara” della politica: personaggio estremamente diplomatico, lo abbiamo, anzi, spesso rimproverato per eccesso di prudenza, insieme ai trenta-quarantenni di un’Area Riformista cui non abbiamo ancora capito se stiano più a cuore le proprie poltrone o le sorti del Paese. Pertanto, quando pure uno come Speranza è costretto ad alzare bandiera bianca, ammettendo pubblicamente di non essere in grado di guidare il proprio gruppo lungo una linea che non condivide e non se la sente di sostenere, il problema non è più di natura strettamente politica ma, per l’appunto, morale.
Comprendiamo che a una figura astorica come Renzi questo discorso dica poco o nulla, ma agli altri, comprese alcune nuove leve, ciò che non sta bene del nuovo “dominus” della politica italiana non sono i provvedimenti in sé quanto, più che mai, il modo in cui il nostro li propone e li difende.
Bisogna rivoluzionare il mondo del lavoro? E chi può non essere d’accordo con un assunto tanto banale! Tuttavia, un conto è rivoluzionarlo in senso democratico e progressista, estendendo le tutele a chi ne è privo e avviando un processo riformatore ad ampio raggio che coinvolga innanzitutto sindacati e associazioni di categoria, un conto è eseguire pedissequamente il compitino inviato dalla Troika, offendendo e umiliando le parti sociali e arrivando addirittura a negare loro il confronto a Palazzo Chigi.
Bisogna cambiare la legge elettorale e riformare la Costituzione per adeguarla al contesto socio-economico del Ventunesimo secolo? E chi può essere contrario a una simile ovvietà! Detto ciò, un conto è tornare al proporzionale puro con preferenze (secondo noi, il miglior sistema in assoluto) o a un doppio turno di collegio in stile Mattarellum, senza scorporo e senza quota proporzionale, in cui ogni singolo parlamentare sia chiamato a rispondere al proprio territorio e sia, quindi, perfettamente autonomo, un conto è imporre un pateracchio incostituzionale come l’Italicum, col quale, di fatto, non eleggeremo più il Parlamento ma direttamente il presidente del Consiglio che, grazie a un mostruoso premio di maggioranza, si trascinerà dietro la maggior parte dei deputati, per lo più nominati da lui. Quanto alle opposizioni, non potendo aggregarsi fra primo e secondo turno, saranno ridotte all’irrilevanza, con una rappresentanza parlamentare costituita unicamente da nominati (non che se ne dolgano, soprattutto se si pensa a Berlusconi e Verdini) e prive della benché minima possibilità di incidere sul processo legislativo che sarà, sostanzialmente, nelle mani dell’esecutivo. Ma c’è di più, da qui la costernazione di Bersani: il combinato disposto di Italicum e stravolgimento della Costituzione, oltre a dar vita a un presidenzialismo di fatto senza i necessari contrappesi, metterà nelle mani dell’inquilino di Palazzo Chigi anche la nomina della maggior parte dei membri della Consulta e l’elezione del Capo dello Stato, a completamento di un processo di accentramento dei poteri che non eguali in nessuna democrazia occidentale.
Qui dunque il problema, ci teniamo a farlo sapere ai “lealisti” di Area Riformista, non è tanto Renzi quanto Montesquieu: non è la durata della legislatura e nemmeno il mantenimento delle loro auguste poltrone bensì il principio della separazione dei poteri che, in seguito a questo sfacelo, verrebbe meno.
E questo ormai l’hanno capito in molti: non solo i professoroni con i capelli bianchi, presto collocati dal Rottamatore nel museo delle vecchie glorie, ma anche gli intellettuali che avevano guardato al renzismo con favore, i professoroni ancora in attività e finanche quei giornali che lo scorso anno gli consentivano di dire a fare ciò che voleva mentre adesso cominciano a fargli le bucce, a dar voce anche a chi dissente e a fargli notare che la fiducia sulla legge elettorale sarebbe non un “golpe” ma, comunque, una forzatura inaccettabile pure per un nemico del galateo istituzionale come lui.
Al che, vien da riflettere su cosa accadrà nelle prossime settimane all’interno del PD. Perché ormai è chiaro a tutti che la “Ditta”, almeno per come la intendeva Bersani, non esiste più e le dimissioni di Speranza sono il suggello a questa tesi. Così come è chiaro a tutti che con un personaggio del genere non è possibile, né tanto meno auspicabile, alcuna mediazione. Ciò che, secondo noi, sfugge alla parte migliore di quell’ex partito è che nella minoranza esistono due correnti di pensiero: una, quella dei Bersani, dei Cuperlo, dei Civati, dei Fassina e delle Bindi, che è disposta a condurre fino in fondo una battaglia di principio in nome dei valori democratici e costituzionali; l’altra, quella degli “yuppies”, dei rampanti, dei carrieristi e di coloro che fuori da Montecitorio o da Palazzo Madama si troverebbero senza arte né parte, che in Direzione o alla riunione dei gruppi parlamentari magari si astiene pure ma poi, al momento decisivo, in Aula, cede e cederà sempre.
È la tragedia dei giovani-vecchi, dei trenta-quarantenni cresciuti a pane e Terza via, mentre la politica diveniva mero affarismo e i partiti smarrivano la propria ragione di esistere: una generazione perduta, inutile, dannosa, spesso e volentieri impreparata che ha trovato in Renzi la propria ancora di salvezza e non è disposta a staccarsene, anche a costo di compromettere la coesione sociale e il futuro del Paese.
Se c’è una colpa che deve essere imputata alla vecchia guardia è proprio questa: non essersi mai preoccupati di garantirsi una successione all’altezza o, quanto meno, complessivamente presentabile, non aver mai contrastato i germi del cinismo più bieco, non aver mai tentato di smarcarsi dalla deriva e dai cedimenti imposti dal pensiero unico dominante che stanno conducendo l’intera Europa al suicidio.
In poche parole, la grande critica che quasi nessuno ha avuto ancora il coraggio di muovere a Renzi è che di motivi per “rottamare” le precedenti gestioni della sinistra ce ne sarebbero a iosa: peccato che lui altro non sia che un conservatore del peggio di quelle esperienze, non a caso sostenuto a spada tratta da molti di coloro che ne sono stati protagonisti, con le uniche eccezioni di Prodi, Bersani e Letta: i tre riformatori che avrebbero voluto portare l’Italia su un cammino di progresso e per questo hanno pagato un prezzo altissimo, con la notte dei centouno a segnare il punto di non ritorno.