Era un uomo mite, gentile, curioso, che mai faceva pesare la sua autorità per la carica religiosa e morale che rappresentava. Elio Toaff, lo storico Rabbino capo di Roma, era un “romano d’adozione”, seppure nato a Livorno quasi 100 anni fa, e dei modi di fare degli ebrei del Ghetto aveva acquisito quella sorta di levità dei comportamenti, un certo fatalismo furbo, ironia, gusto per la discussione, la disponibilità verso tutti. Autorità indiscussa, ma non autoritario. Lo conobbi nel 1978, mentre realizzavo una serie di interviste con i sopravvissuti dai campi di concentramento, in concomitanza con la messa in onda del film TV Holocaust, un capolavoro americano, che per la prima volta affrontava con crudezza il tema delle persecuzioni razziali da parte dei nazisti.
Avevo già sentito diversi personaggi (attori, scrittori, pittori, giornalisti e partigiani), ognuno dei quali aveva vissuto la durezza dei campi di concentramento e riportava sul corpo e nell’animo le stigmate della Shoah.
Ma il lungo colloquio con il Rabbino capo fu diverso, nel suo studio dentro la sinagoga. Sembrava più interessato a cosa conoscessi e pensassi di quel periodo, che lui a raccontare la sua storia. Quando affrontammo gli anni della tragedia, i suoi occhi si velarono di tristezza e preso dalla commozione mi confessò: “la mia unica amarezza è di non aver vissuto la dura condizione dei campi, di non essere stato insieme ai miei confratelli nella sofferenza”.
Gli occhi svelti ed indagatori erano ancora umidi, quando mi raccontò della sua fuga con la famiglia da Ancona, dove era rabbino maggiore, grazie all’aiuto del parroco di una chiesa vicina e, sempre grazie all’intervento di altre famiglie cattoliche, riuscì a scampare ai rastrellamenti. Poi ci fu il periodo della Resistenza nella Brigata Garibaldi. Ma di quei giorni non volle parlare più di tanto. Da uomo di culto più che da combattente non volle soffermarsi sugli avvenimenti bellici. Ricordava, invece, con amarezza e sofferenza la razzia nel ghetto del 16 ottobre del 1943 (1.259 persone rastrellate dalla Gestapo, solo in 16 tornarono vivi da Auschwitz), come esempio della crudeltà umana, della “banalità del male” per dirlo con il titolo del libro di Hannah Arendt.
Gli uomini non amano di per sé la violenza né sono malvagi, ma in certe condizioni sociopolitiche diventano carnefici dei loro simili, come meri esecutori dei voleri di chi ha il potere di condizionarli.
Parlammo a lungo di persone che conoscevamo, amicizie che avevamo in comune: avevo frequentato il liceo Virgilio, la scuola più vicina al ghetto e per tradizione scelta dai ragazzi ebrei, e con alcuni di loro avevo vissuto gli anni della “contestazione giovanile”, avevo compreso molte abitudini del popolo ebraico e così invogliato a leggere autori di origine israelitica (“Se questo è un uomo” di Primo Levi, “il diario” di Anna Frank, le opere di Franz Kafka e di Joseph Roth, ecc…). Insieme ad alcuni “virgiliani”, impegnati con un gruppo cattolico, da cui poi nacque la comunità di Sant’Egidio, partecipammo ad una manifestazione di solidarietà presso la sinagoga, durante la guerra dei Sei giorni nel giugno del 1967.
Ecco lo spirito interreligioso, di solidarietà con “i fratelli maggiori, i fratelli prediletti”, come poi li definì Papa Giovanni Paolo II, durante la storica visita in sinagoga il 13 aprile del 1986, era la sua linea-guida che, appunto, lo spinse a stringere i rapporti col Papa polacco e a concretizzare lo straordinario abbraccio nel tempio maggiore di Roma.
Tra pochi giorni si celebrerà il 70esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo e a Roma non si riuscirà neppure a organizzare un corteo per commemorare quella data così determinante per la nostra storia repubblicana. Già l’anno scorso ci furono tafferugli e contestazioni da parte della cosiddetta sinistra antogonista, perché erano presenti le bandiere della Brigata ebraica, simili a quelle di Israele.
C’è chi, in nome di una visione politica terzomondista e di opportunità legate alla geopolitica attuale, vorrebbe accomunare quella lotta al conflitto israelo-palestinese, snaturandone lo spirito. Ma il 25 aprile si festeggia un periodo fondamentale per la storia d’Italia, per la Costituzione che da quei valori unitari ne scaturì. Al momento il corteo è stato cancellato. Sarebbe, invece, quanto mai giusto e sacrosanto che sfilino insieme alle associazioni dei partigiani, quelle dei deportati e reduci dei campi di concentramento e della Brigata ebraica, che seppe riunire gli ebrei italiani, scampati alle razzie nazifasciste, i quali si unirono agli altri combattenti e alle forze alleate per liberare il nostro paese.
Il 25 aprile si ricordino, quindi, due grandi figure antifasciste, due “romani d’adozione” appena scomparsi, come il giornalista Massimo Rendina, il “Comandante Max”, cattolico e già vicepresidente dell’ANPI (a Torino, appena liberata, come comandante della Brigata Garibaldi, fece uscire subito “L’Unità” e più tardi fu direttore del Telegiornale, cacciato poco dopo dal capo del governo Tambroni per motivi politici), e il Rabbino capo Elio Toaff, esempio del dialogo interreligioso e uno degli artefici della Liberazione come membro della Brigata Garibaldi, tra l’altro un dei primi testimoni dell’eccidio a Sant’Anna di Stazzena.