“Se viene molestato con domande, il ricordo assomiglia a una cipolla che vorrebbe essere sbucciata perché, carattere dopo carattere, possa venire allo scoperto quanto c’è di leggibile: di rado univoco, spesso in scrittura a specchio o comunque enigmaticamente confuso. Sotto la prima tunica, ancora secca e cricchiante, si trova la successiva che, appena staccata, ne libera una terza, umida, sotto alla quale una quarta, una quinta attendono e bisbigliano. E tutte quelle successive trasudano parole troppo a lungo evitate, anche disegni a ghirigori, quasi che qualcuno, volendo fare il misterioso fin da giovane, quando la cipolla era ancora in germoglio, avesse cercato di codificare se stesso”.
Così nell’autobiografia del 2006 “Sbucciando la cipolla” (Einaudi), lo scrittore tedesco Günter Grass, morto in una clinica della città di Lubecca a 87 anni, racconta la prima parte della sua vita, dall’infanzia agli anni cinquanta, quando, a diciassette anni, entra per pochi mesi come volontario e non coscritto nelle Waffen-SS e nel 1945 catturato dagli statunitensi, finisce in un campo di prigionia americano in Baviera.
Una rivelazione forse colpevolmente tardiva per l’uomo identificato come il censore intellettuale e morale di una nazione, la vera “coscienza critica della Germania”, per l’uomo che attraverso Oscar Matzerath, il protagonista di uno dei capolavori assoluti del Novecento “Il Tamburo di latta”, primo titolo della trilogia di Danzica, città della memoria e del sogno dello scrittore, che comprende anche “Gatto e topo” e “Anni di cani”, aveva raccontato le miserie e gli orrori dell’umanità, l’inarrestabile ascesa del nazismo e il crollo della Germania, scuotendo e scorticando così l’anima di un paese nel rapporto con il suo oscuro passato.
Günter Grass poeta, scrittore, artista, con la sua patria condivideva quella ferita esistenziale, quel tormento di vita, quella volontà di resurrezione dalla barbarie, dal male assoluto, un riscatto che lo ha reso dopo Bertold Brecht il più grande scrittore tedesco del dopoguerra, una delle menti illuminate del Gruppo ’47, un convinto sostenitore del partito socialdemocratico e fedele a Willy Brandt e un difensore dei diritti umani. “Il ricordo ama giocare a nascondino come i bambini. Si rintana. È incline all’adulazione e gli piace abbellire, spesso senza necessità. Contraddice la memoria, che si comporta con pedanteria e vuole avere litigiosamente ragione”.
Oggi potremmo ricordare il suo sventurato giudizio negativo sulla caduta del muro di Berlino o la meravigliosa consegna nel 1999 del premio Nobel per la letteratura, ma Günter Grass era capace di scolpire pietre, di guardare il mondo oltre le lenti dei suoi inseparabili occhiali, oltre la coltre di fumo della sua amica fidata pipa, di pensare parole barocche, di custodire, alimentare, tramandare un tesoro: la Scrittura.