“La libertà – scriveva Pietro Calamandrei – è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Lo scrittoreRoberto Saviano (nella foto) ricorda instancabilmente il nostro padre costituente e le sue parole sui partigiani morti durante la Resistenza italiana. E non mancherà di farlo il 25 aprile nel corso dell’evento speciale dedicato ai settant’anni della Liberazione, che si terrà su Rai1 in prima serata in diretta dalla piazza del Quirinale. L’autore di Gomorra, è sotto scorta dal 2006 per il suo impegno di scrittore e giornalista contro la camorra e la criminalità organizzata ma la passione civile che lo contraddistingue lo vede quotidianamente in prima fila nelle battaglie contro la negazione dei diritti fondamentali, individuali e collettivi. Lo abbiamo intervistato in esclusiva per l’atteso evento televisivo.
Che significato ha il 25 aprile oggi? E soprattutto cosa dovrebbe significare la Liberazione per un giovane del 2015 a settant’anni di distanza?
Ricordare qual era l’Italia che si volle mutare, ricordare come era quell’Italia. Ricordare il prezzo pagato per trasformarla e il fallimento di quella trasformazione, perché l’Italia di oggi non è assolutamente come avevano immaginato i resistenti. Quindi la sento una celebrazione necessaria per prendersi tempo e riflettere.
Una prima serata Rai sulla Liberazione con Fabio Fazio a tre anni da “Quello che non ho”. Che programma sarà?
Sarà un programma a più voci, io sarò a Montecassino e da lì racconterò una storia diversa che in genere non viene ricordata, ovvero la liberazione d’Italia fatta da truppe straniere. Il sud Italia è stato liberato da uomini che provenivano da tutte le nazioni del mondo. Ecco, parlerò di questo.
Di cosa si deve nutrire un racconto televisivo su questo capitolo della storia per evitare di scadere nella retorica degli anniversari?
Se per retorica si intende tutto ciò che arriva per slogan, allora va certo evitata. Da questo genere di retorica, mai costruttiva, non ci si allontana abbracciando il cinismo o cadendo nella provocazione spesso seducente, ma sterile. Non è retorica degli anniversari, invece, il racconto che abbraccia la complessità, la molteplicità. Non è retorica degli anniversari il racconto che non resta in superficie, che non utilizza scorciatoie, che non crea tifoserie. L’anniversario perde ogni significato se è semplicemente una commemorazione di nomi e di fatti che smettono di parlare, di ferire e di muoversi.
Il primo atto pubblico del nuovo Presidente della Repubblica Mattarella è stata la visita alle Fosse Ardeatine. Qual è la portata simbolica di questo gesto?
Andare alle Fosse Ardeatine non è stata una semplice operazione di immagine. Credo piuttosto che sia stato una sorta di atto costitutivo. Mattarella, con quel gesto, ha scritto il primo articolo della sua personale Costituzione di presidente. Spero che tutto sia in coerenza con questo suo gesto.
I testimoni diretti e i sopravvissuti delle atrocità dei campi di concentramento stanno via via scomparendo. Temi che questo possa determinare pericoli di negazionismo o di revisionismo storico in Italia (e in Europa)?
Non ho mai temuto revisionismo e negazionismo. Anzi mi è capitato di leggere David Irving e di trovare le sue posizioni negazioniste ridicole e altre sue interpretazioni, invece, interessanti. Negazionismo e revisionismo possono essere affrontati con le analisi scientifiche, con il racconto dettagliato dei fatti, con le testimonianze. Io ho piuttosto un’altra paura: temo che la morte dei testimoni, di chi ha vissuto e sofferto, faccia dimenticare la vicinanza di queste storie a noi. Nessuna storia umana dovremmo sentirla distante, questa è la qualità degli storici e in un certo senso il progetto della nostra trasmissione. Non rendere queste storie museali, offrire testimonianze che mostrino quanto siano a noi vicine, quanto appartengano al nostro DNA.
Oggi i rigurgiti di intolleranza nei confronti di immigrati, nomadi e varie minoranze ci riportano indietro di settant’anni o sono un fenomeno con caratteristiche nuove?
Le dichiarazioni di Salvini sugli immigrati, sui rom, sugli stranieri che verrebbero a invadere il nostro paese, al di là del significato orrido, utilizzano un linguaggio che non sarebbe stato consentito a nessuno nei giorni successivi la Liberazione, perché quelle parole, quegli aggettivi e quei toni, avevano generato sofferenza, tortura e sangue.
Fonte: intervista pubblicata sul Radiocorriere Tv