Tunisia in marcia contro il fondamentalismo jihadista. Quale futuro geopolitico per il mondo arabo?

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Com’era lontano lo spirito della manifestazione parigina contro la strage a Charlie Hebdo, in questa Tunisi ferita a morte dal fondamentalismo jihadista con 22 vittime falcidiate tra le sale del museo Bardo. A Parigi quasi 2 milioni di persone che per un certo percorso hanno fatto da contorno ai rappresentanti delle istituzioni (capi di stato e di governo, ministri e ambasciatori). A Tunisi una folla immensa di 70 mila persone tenuta separata dal “corteo istituzionale”, ben difeso dai corpi di sicurezza, e che ha marciato per poche centinaia di metri dal Parlamento al museo, senza che le due manifestazioni si incontrassero.

Certo la Tunisia, paese di antiche tradizioni socialiste, terra da dove nacque la “Primavera araba”, l’unica nazione dove i partiti islamici hanno dovuto far posto ai partiti laici al governo, espresso in libere elezioni, resta l’ultimo baluardo democratico nel Nord Africa.

La piccola Tunisia è un laboratorio politico fin dalla sua indipendenza dal colonialismo francese nel 1956. Il primo paese islamico a dotarsi di una Costituzione ispirata ai principi della laicità e della divisione dello stato dalle autorità religiose. Alla fine degli anni Cinquanta con l’ascesa di Bourghiba,  “padre della patria”, furono abolite tutte le forme di commistione tra la sharia e le leggi della repubblica (introduzione del divorzio al posto del ripudio, divieto dell’hijab nelle scuole, estensione del diritto di voto anche alle donne, libertà d’informazione). Nonostante la parentesi dittatoriale del generale Ben Alì, che destituì il vecchio e ammalato Bourghiba, la Tunisia riuscì a liberarsi dal regime autoritario nel 2011 con un forte movimento popolare, con le donne tra le protagoniste. Questa Primavera araba si estese anche nei vicini stati, ma non portarono agli stessi effetti, proprio perché la Tunisia ha anche una forte tradizione marxista e laicista, che ne ha fatto una sorta di avamposto europeo nel Maghreb.

Oggi, la vivacità del movimento di resistenza al fondamentalismo islamico fa di Tunisi un bersaglio “sensibile” agli attacchi dei gruppi terroristici che si rifanno alle teorie oscurantiste dell’ISIS. Proprio perché qui non ha attecchito la propaganda sunnita, che è alla base dei combattenti del Califfato, come invece in Egitto, Libia, Siria ed Iraq. La Tunisia, tra l’altro è un mix di comunità etniche piuttosto particolare: oltre agli arabi, vi sono in gran numero berberi, cabili, turcomanni ed ebrei (la più antica sinagoga della prima Diaspora ebraica si trova nell’isola di Djerba). La tolleranza tra le diverse etnie e fedi religiose ha fatto sì che la Tunisia diventasse un ostacolo sull’islamizzazione fondamentalista dei sunniti dell’ISIS.

E per la seconda volta (la prima fu nel 2002, a Djerba, davanti alla sinagoga furono lanciate da aderenti ad Al Quaida delle bombe che fecero una ventina di morti, in maggioranza turisti tedeschi), la Tunisia è diventata il palcoscenico tragico e per alimentare la leggenda mediatica di una crescita dell’ISIS e della sua capacità di colpire ovunque. Si tratta di un inganno comunicativo, alimentato dalla Rete e dall’uso furbesco dei social network, perché siamo di fronte a gruppi terroristici autoctoni, che per accrescere la loro autorevolezza usano lo scudo propagandistico dell’ISIS. E comunque si è trattato del primo eccidio fondamentalista che ha colpito 22 turisti di 10 nazionalità diverse, la maggioranza di origine europea. Un attacco alla maggiore attività economica tunisina, quella del turismo, ma soprattutto un aggressione ai luoghi della cultura e dell’arte, ai simboli della memoria pre-Maometto, per far dimenticare le origini dello stesso islam e far ripartire l’orologio della storia da una sorta di “Anno zero” musulmano.

In realtà l’ISIS si trova in difficoltà, dopo la campagna militare dell’anno scorso, in diverse regioni conquistate a ferro e fuoco in Iraq e Siria. I paesi arabi che finora li avevano finanziati segretamente o comunque spalleggiati in funzione anti-sciita e anti-iraniana, si trovano a dover fare marcia indietro perché “la belva” non esegue più gli ordini del padrone. La crisi nel Golfo di Aden, punto strategico per il controllo del traffico di petrolio, gas, armi, e minerali, ha spinto i paesi a maggioranza sunnita (guidati dall’Arabia Saudita e dall’Egitto) a sferrare un attacco senza precedenti contro gli sciiti dello Yemen, da sempre oppressi dai regimi dittatoriali sunniti. L’Iran dovrà così scendere a patti con i “fratelli separati”, se vorrà continuare ad avere un loro sostegno nelle trattative per l’uso del nucleare, tanto avversato da Israele.

Ad ogni modo, quello cui noi stiamo assistendo, anche come vittime della violenza, non è altro che la prima grande guerra di religione nel mondo islamico, tra le due maggiori scuole di interpretazione coranica. Non è stata dichiarata una guerra di religione tra Oriente e Occidente, tra islam e cristianesimo, anche se le vittime spesso sono anche cristiani ed ebrei; ma è uno scontro di civiltà, ammantata da rituali religiosi. Un po’ come tra il Cinquecento e il Seicento, quando l’Europa si dilaniò in sanguinose e terribili guerre di religione, in realtà per spartirsi regioni e sfere d’influenza mercantile, fino a quando in Inghilterra e più tardi in Francia non si affermò la separazione tra Stato e Chiesa e si arrivò alla promulgazione di diritti civili.

L’islam oggi è alle prese con il dilemma se restare ancorato alla sharia o se imboccare la strada della laicità e della separazione tra fede e stato. Sarà una dura lotta, che avrà come vittime soprattutto le popolazioni arabe e, di contorno, anche coloro che professano religioni monoteistiche come ebrei e cristiani (che pure sono all’origine della predicazione coranica di Maometto!). Ma sarà anche uno stravolgimento degli equilibri geo-politici, energetici e finanziari che hanno fatto da collante a quella “invenzione diplomatica” del Medio Oriente (dalla Siria alla Giordania, alla penisola arabica, agli stati del golfo, all’Iraq e l’Iran), creata dall’accordo franco-inglese, con l’assenso della Russia zarista, tra François Georges Picot e Mark Sykes, per depredare le spoglie del fatiscente Impero ottomano.

La speranza è che stavolta scorra poco sangue, si fermi il terrorismo globale, e che alla luce del sole si ponga rimedio ai tanti torti subiti dal popolo arabo con accordi trasparenti e legittimati da referendum popolari o da libere elezioni, sotto l’egida delle istituzioni internazionali. Altre strade saranno solo foriere di lutti e distruzioni.


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