un film di Abderrahmane Sissako
con Ibrahim Ahmed, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara, Hichem Yacoubi
Francia/Mauritania 2014.
di Giorgio Brancia
Rigore. Il ragazzo posiziona con cura un invisibile pallone da calcio in terra. Guarda negli occhi il portiere avversario. Prende la rincorsa e tira in porta. Ma il portiere para e rimette in gioco il pallone immaginario, che viene rincorso dai ventidue giocatori in campo. Quella della partita di calcio senza pallone rimane probabilmente una delle sequenze più poetiche ed evocative di Timbuktu, ultima fatica del regista mauritano Abderrahmane Sissako, già in concorso per la Palma d’oro a Cannes e ora in lizza per l’Oscar come miglior film straniero. Di per sé opera di valore, il film, ora nelle sale italiane, pare assumere i caratteri dell’urgenza, dell’opera necessaria: «sembra proprio il film del presente storico che stiamo vivendo» (Alò). È ovvio, infatti, che il pensiero andrà al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi e a ciò che sta accadendo in questi giorni a Sirte, una volta usciti da questa storia bellissima sulla tolleranza religiosa di un islam pacifico in contrasto con il fanatismo fondamentalista.
Partendo da testimonianze reali, attraverso «un lavoro di (de)costruzione cronachistica e (ri)composizione narrativa» (Pettierre), Sissako allestisce una narrazione corale per raccontare l’attualità del Mali, paese d’origine dei suoi genitori e in cui vive ormai da anni. Attraverso le storie, le voci e i volti del pastore Touareg Kidane (Ibrahim Ahmed) e della sua orgogliosa famiglia, del piccolo Issan (Mehdi Ag Mohamed), del jihadista Abdelkerim (un credibilissimo Abel Jafri) e di altre decine di personaggi di contorno, il regista mostra quel microcosmo di divieti e angoscia in cui si è trasformata la città del titolo, dopo l’arrivo dei jihadisti nel 2012 (Timbuctu è stata poi liberata, nel 2013, grazie ad un intervento del governo francese). Non c’è, dunque, un vero e proprio protagonista, ma è un’intera città-ostaggio – simbolo di una popolazione, quella africana – ad essere descritta: così, solo per citare alcuni episodi, abbiamo la pescivendola che si rifiuta di mettersi i guanti perché non potrebbe pulire il pesce al mercato e si ribella alla polizia islamica; i ragazzi fustigati per aver cantato e suonato e per essere stati nella stessa stanza; la straziante sequenza della lapidazione di due amanti; il confronto tra l’imam della moschea di Timbuctu (Adel Mahmoud Cherif) e il leader dei jihadisti (Hichem Yacoubi) sull’interpretazione dell’islam, dove il primo propugna un’idea di pace e di dialogo, mentre il secondo vede un mondo di fede cieca dove applicare la sharia alla lettera.
È in questo mosaico di vicende che si stendono i due temi principali del film: Sissako, da una parte, mette in scena il dramma di un pezzo di mondo di fronte alla barbarie di uomini che sfruttano una religiosità integralista e ottusa al fine del potere; dall’altra, sottolinea con forza un cambio di status fatto di dolore e confusione: Timbuctu, che fino al giorno prima si considerava costituita da buoni musulmani, si ritrova improvvisamente nel peccato: oltre al gioco del calcio, è vietato fumare, incontrarsi o sostare in strada, ascoltare o suonare musica, oltre alle immancabili severità sugli usi e costumi femminili. In uno dei momenti più dolorosamente ironici del film, dopo aver elencato alla popolazione tutto ciò che è vietato fare, un combattente incappucciato conclude dicendo: «È vietato tutto».
Queste tragedie, Sissako le racconta con una malinconia trattenuta e dolorosa, quasi rassegnata, insistendo sui volti, sugli sguardi e sui silenzi: attraverso uno stile che una volta si sarebbe definito documentaristico, «commuove di realismo come Rossellini e coglie l’assurdo di regime come Suleiman» (Sangiorgio), mentre le immagini di una natura incontaminata e severa – splendidamente fotografata dal Sofian El Fani di La vita di Adele – incorniciano una città che tenta di sopravvivere al Terrore giacobino battente bandiera nera. E dove alla fine, tutti finiscono per sentirsi «braccati» da una violenza contro cui sembra impossibile ribellarsi. Come succede alla gazzella che apre e chiude il film, ripresa mentre corre disperatamente verso il nulla, accompagnata da una voce fuori campo che urla: «Non sparare, sfiancala».