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Sudan, riflettori accesi per poche ore su stupri, repressioni della libertà d’espressione e di culto

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E’ stata dura, molto dura. Ma nell’anniversario dell’inizio del conflitto in Darfur siamo riusciti ad accendere per qualche ora i riflettori sulle violenze, le violazioni dei diritti umani e le repressioni contro la libertà religiosa e di espressione in Sudan perpetrati nell’indifferenza del mondo. Con le innumerevoli crisi ed emergenze in corso sul pianeta lo spazio da ritagliare per un tema da sempre ‘dimenticato’ non era scontato.

Sono passati 12 anni dal 26 febbraio del 2003 quando è iniziata ufficialmente questa ‘guerra dimenticata’ che ha provocato centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e tanta distruzione. Per tanti, molti, osservatori nella regione occidentale sudanese è stato compiuto un vero e proprio ‘genocidio’, una serie atroce di crimini contro l’umanità sui quali era stata avviata un’inchiesta della Corte Penale Internazionale che aveva portato all’emissione di un mandato di arresto per il presidente del Sudan in carica, Omar Hassan al-Bashir.

Nonostante i molteplici interventi umanitari e il dispiegamento della missione delle Nazioni Unite in Darfur, il disastro umanitario persiste e continua a suscitare crescente preoccupazione per la popolazione che vive nei campi profughi o nei villaggi ancora autosufficienti nonostante i grandi problemi di sicurezza e di carestie continue..

Da gennaio a dicembre del 2014, 485 mila persone hanno dovuto lasciare le loro case, portando a oltre 2 milioni i rifugiati dall’inizio del conflitto.
Si calcola che in tutto il Sudan circa 7 milioni di persone sopravvivano grazie all’assistenza umanitaria, 4 nel solo Darfur.
Secondo gli ultimi dati, contenuti nel Rapporto che abbiamo presentato il 26 febbraio come ogni anno, si stima che per la fine del 2015 i nuovi sfollati supereranno di gran lunga il mezzo milione.

Dall’inizio della guerra le vittime sono state almeno 300 mila. Tra le nefandezze compiute dal regime di Khartoun vanno annoverati crimini di guerra e contro il diritto internazionale, come gli stupri di massa e il rapimento e reclutamento di bambini – soldato. Sono stati centinaia i casi di violenze sessuali sistematici, di villaggi bruciati, di coltivazioni distrutte e di furti di bestiame.

In tutti questi anni i media hanno raccontato una realtà dei fatti, quelle poche volte che ne hanno parlato, che spesso trascendeva gli aspetti alle radici del conflitto e che rappresentano le concrete cause dello stesso.
Geograficamente, il Darfur è localizzato nel Sudan Occidentale, al confine con la Libia, il Chad e la Repubblica Centro Africana. Prima che iniziasse il conflitto, la popolazione stimata era circa 6 milioni di abitanti – di cui l’80% viveva va nelle zone rurali – su un totale di 32 milioni di sudanesi.

La popolazione della regione è composta da una moltitudine di gruppi linguistici ed etnici per lo più stanziali, i Fur (da loro deriva il nome della regione ‘terra dei Fur’), Zaghawa, Masalit, Daju e Tunjur e di alcune le tribù nomadi che parlano arabo, i Missairiyya, i Ta`isha, i Mahamid, i Rezaqat,  e i Beni Helba. Tra queste due grandi entità si è innescata una contrapposizione per la gestione e il potere del territorio.
Ma è stato chiaro dal primo istante ad analisti e osservatori delle questioni sudanesi che il conflitto in Darfur non era solo l’inevitabile conseguenza dello scontro tra fazioni contrapposte, ma anche di un’esplosiva combinazione di fattori politici, sociali, ambientali ed economici su cui Khartoum ha costruito l’instabilità che le permette di controllare la regione

Oggi il Darfur è un agglomerato di moltitudini che vive al limite della sopravvivenza. Da quando sei mesi fa il Sudan ha sospeso il programma delle Nazioni Unite nato per fornire assistenza ai nuovi sfollati, 6 milioni di persone che ne beneficiano, quasi il 20% della popolazione del Paese, sono precipitate in una emergenza umanitaria ancora più grave.

In Sudan è in atto “un’escalation drammatica” nel numero di persone che necessitano di assistenza sanitaria, lievitato del 40% rispetto all’anno scorso. A fronte di ciò è a dir poco sconcertante vedere come una regione del mondo che fino a qualche tempo fa era al centro dell’attenzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu non sia più considerata dall’agenda geopolitica internazionale.

* giornalista e presidente di Italians for Darfur


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