Rivince Netanyahu ed è una vera e propria tragedia: una sconfitta per Israele, condannato all’isolamento internazionale e a rapporti sempre più tesi con lo storico alleato americano, e per tutto il Medio Oriente che, con ogni probabilità, subirà squilibri gravi e, forse, addirittura irrimediabili a causa dell’inasprirsi della contesa fra l’estrema destra israeliana e i fondamentalisti di Hamas.
D’altronde, basta leggere alcune dichiarazioni dell’una e dell’altra parte per avere un quadro del contesto col quale saremo chiamati a confrontarci nei prossimi mesi: se Netanyahu ha asserito che, finché lui sarà al governo, non nascerà mai uno Stato palestinese, Hamas gli ha prontamente replicato definendo “terroristi” il primo ministro e i suoi elettori e aggiungendo, per voce di Izzat al-Rishq, che “la vittoria di Benjamin Netanyahu indica che la società sionista tende sempre più verso l’estremismo”. Non solo: sempre ha Hamas ha previsto un collasso del processo di pace e sostenuto che ciò “confermerà che la resistenza in tutte le sue forme, prima fra tutte quella armata, è il metodo giusto” e che l’organizzazione “va avanti con il suo progetto di resistenza, a prescindere dal terrorista che guiderà il governo d’occupazione”.
Addolora ma saremmo ipocriti se dicessimo che siamo sorpresi da una simile reazione: un primo ministro oltranzista e spietato, liberista in politica economica, fautore di un ampliamento delle disuguaglianze all’interno del proprio paese e guerrafondaio nei confronti dei rivali storici di Israele, un soggetto del genere, chiuso a ogni ipotesi di dialogo, gretto oltre i limiti dell’arroganza e per questo spalleggiato dall’ala più bieca e retrograda della destra americana, non poteva che suscitare una risposta di segno uguale e contrario da parte dei nemici. Perché di nemici si tratta, non di avversari: per Netanyahu, tanto i palestinesi, moderati o vicini ad Hamas che siano, quanto gli iraniani, non sono interlocutori con i quali confrontarsi ma barbari da civilizzare o, peggio ancora, ridurre al silenzio, alla miseria, alla disperazione, come abbiamo visto l’estate scorsa a Gaza e come probabilmente vedremo ancora nei prossimi anni.
Non a caso, come ha spiegato la rivista “Limes” in un mirabile articolo, il vero motivo per cui “Bibi” Netanyahu ha deciso di convocare questo referendum su se stesso è più che altro di natura psicologica: non c’erano ragioni politiche per tornare anticipatamente alle urne, se non quella di trasformare la natura e l’identità del paese. Non più “Medinat Israel” ma “Eretz Israel”: non un semplice Stato ma una Terra, con un richiamo esplicito al concetto di “Terra promessa” e assegnata al popolo ebraico direttamente da Dio; il che, come potete ben capire, c’entra assai poco con la religione e molto con la volontà di potenza e dominio di cui Netanyahu e i falchi dell’ultra-destra, Bennett e Lieberman, sono i principali sostenitori. Essi non vogliono una convivenza pacifica con i palestinesi né, tanto meno, accetteranno mai la soluzione dei due popoli-due stati: essi vogliono l’annientamento del popolo palestinese, esprimendo un desiderio genocidiario neanche poi così nascosto e purtroppo dirompente tra le frange più estreme e ignoranti della popolazione.
A questi ultimi ha parlato il furbo “Bibi” recandosi negli Stati Uniti a sfidare apertamente Obama; a questi ultimi ha parlato facendo campagna elettorale negli insediamenti coloniali più criticati; a questi ultimi ha promesso un ulteriore inasprimento dello scontro con Hamas; a questi ultimi ha dato prova di fermezza opponendosi al sacrosanto negoziato in corso a Ginevra sul nucleare iraniano e da questi ultimi è stato votato, ricevendo in premio un’ampia maggioranza di destra con la quale proseguire lungo la strada dell’occupazione dei territori, del mancato rispetto delle risoluzioni dell’ONU e della palese violazione dei diritti e della dignità del popolo palestinese.
Una strategia suicida, alla lunga controproducente, fondata sull’odio e sullo sterminio, sull’eccitazione degli animi e sull’appello alla “pancia”, a dispetto di ciò che la testa, il cuore e l’esperienza politica avrebbero suggerito a un vero statista. Ma “Bibi” non è uno statista: è né più e né meno che il vendicatore dai modi spicci ai quali si aggrappa una nazione sfiancata da oltre sei decenni di guerra, ormai priva di ogni certezza, costretta a combattere ogni giorno con l’evidenza di una situazione insostenibile e pure sostenuta con crescente ferocia e pervicacia, a scapito del buonsenso, della politica, della strategia e, naturalmente, di qualunque principio di correttezza e umanità.
Con la vittoria di Netanyahu gli unici a vincere sono i trafficanti di armi: tutti gli altri perdono un’occasione storica, forse l’ultima, di stabilizzare una regione che è da sempre una polveriera ma che ora rischia seriamente di esplodere, spianando la strada agli opposti estremismi, tra cui quello temutissimo dei seguaci del Califfato.
Del resto, quando viene meno la forza del dialogo, del confronto e della ragionevolezza, al più debole, per non soccombere, non resta che l’uso di metodi estremi: sempre esecrabili, sempre da condannare, sempre e comunque ingiustificabili ma ai suoi occhi indispensabili per non veder calpestato tutto ciò che ha costruito e che un bombardamento potrebbe portargli via dall’oggi al domani.
La vittoria di Netanyahu, in conclusione, è la vittoria di un uomo di guerra, andato al potere per compiacere coloro che si arricchiscono grazie a massacri e carneficine e da essi sostenuto per poter completare l’opera. Spiace dirlo, ma chi si è recato alle urne per votare questo esecutore di stragi potrebbe aver condannato a morte se stesso e tutti noi.