“Superare il bicameralismo paritario, ridurre i poteri delle regioni e semplificare il rapporto tra centro e autonomie, eliminare gli enti inutili. Ci siamo. Martedì andiamo alla camera con il voto finale della seconda lettura. Puntiamo al referendum finale (perché per noi decidono i cittadini, con buona pace di chi ci accusa di atteggiamento autoritario: la sovranità appartiene al popolo e sarà il popolo a decidere se la nostra riforma va bene o no. Il popolo, nessun altro, dirà se i parlamentari hanno fatto un buon lavoro o no)”. Sono parole del segretario del Pd, nella sua ultima eNews.
Letta come la scrive Renzi, la cosa sembrerebbe pure logica. Il popolo è sovrano, e solamente esso giudicherà la bontà delle scelte e il lavoro dei parlamentari. Non fa una grinza, vero? Solo che, però, proprio in questa logica, uno potrebbe chiedersi: “ma perché, se andando alle Camere si pensa già e comunque al referendum, allora non farlo sempre?”. Cioè, dico, dato che la proposta di riforma è quella voluta dal capo del Governo e presentata da un suo ministro, e su questa si punta al voto diretto dei cittadini, perché non immaginare un meccanismo in cui l’Esecutivo e chi lo guida presentino i propri disegni e progetti direttamente al popolo sovrano, magari in campagna elettorale, e, una volta approvati alle elezioni, tali siano assunti e approvati, “con buona pace” del Parlamento e delle sue prerogative?
Sì, lo so che per le riforme costituzionali il referendum confermativo è previsto, con tanto di modi e circostanze, dalla stessa Carta. Nondimeno, mi chiedo perché, in una simile visione, non pensare a un nuovo meccanismo decisionale per tutto e in qualsiasi circostanza. O meglio, nemmeno un altro procedimento: si tratterebbe, in definitiva, di sottoporre al giudizio assoluto del popolo una serie di riforme e programmi e, una volta ricevuta l’approvazione, meglio ancora se nel momento dell’elezione dei rappresentanti, questi si ratifichino e basta, così come sono stati presentati e votati dai cittadini.
Semplice, no? Però c’è un “ma” in tutta la faccenda. Perché, se quella diventa la strada e i rappresentanti non possono più esercitare le loro funzioni “senza vincolo di mandato”, allora essi chi e che cosa rappresentano? Rappresentare, infatti, nella teoria istituzionale dovrebbe significare che l’eletto sceglie per conto dell’elettore che lo vota, non sulla base di un mandato puntuale e vincolante.
Se invece i rappresentanti dovessero attenersi a un programma dettagliato e definito, o peggio, se i parlamentari potessero solo votare sulle proposte del Governo, altrimenti questo ricorre, puntandoci fin da subito, a una sorta di consultazione plebiscitaria diretta, qualcuno potrebbe chiedersi se è vera rappresentanza quella di cui sono investiti.
E magari, se è necessario continuare ad avere (e mantenere, pure in senso economico) non solamente due Camere paritarie, ma proprio un Parlamento deputato esclusivamente all’approvazione di quanto già scritto nel programma o di quello su cui il capo dell’Esecutivo chiede di votare.