Beatrice, nel quinto canto del Paradiso, raccomanda a Dante: “Apri la mente a quel ch’io ti paleso,/ e fermalvi entro; che non fa scïenza,/ sanza lo ritenere, avere inteso”. Senza memoria non si ha vera conoscenza. Il fatto è che la memoria costa fatica e ancor più tempo; difficilmente è adatta all’epoca dei tweet, dove è importante il muoversi veloci, anche nell’elaborare e far propri i concetti.
Però, a tutto c’è un limite e su tutto ci sono quanti fanno resistenza. Per esempio, il presidente del Consiglio, da segretario del Pd, ha invitato per venerdì scorso tutti i parlamentari del partito che guida, ben 422 fra deputati e senatori, per discutere, come si legge nella lettera firmata dallo stesso Renzi, di “Scuola, dalle 14 alle 15; Rai, dalle 15 alle 16; Ambiente, dalle 16 alle 17; Fisco, dalle 17 alle 18”. Una proposta di organizzazione dei lavori così tanto poco seria che la grande maggioranza di quelli che l’hanno ricevuto, ha declinato o ignorato l’invito.
Ma come si può pensare, davvero e senza polemica, che di quelle cose oltre quattrocento parlamentari ne discutano per blocchi da un’ora? E se volessero parlare, dato che quello sarebbe la funzione che dà il nome allo loro status? O forse qualcuno immaginava che essi dovessero solo ascoltare qualche relazione, applaudire e poi, silenti, votare? Se per alcuni questo è il lavoro di chi siede fra i banchi di Montecitorio e Palazzo Madama, per altri, giustamente, quell’impegno è molto diverso e tanto più nobile.
Perché ha ragione Bersani: ci si può pure inchinare ai dettami della comunicazione, ma non pensare che tutti i deputati e i senatori siano figuranti buoni a riempire le sale del premier a favore delle telecamere. E ha ragione anche Cuperlo, quando ricorda al segretario del Partito democratico che, se si vuole discutere, si dovrebbe anche tener conto delle proposte degli altri, non come è stato fatto, sulle riforme costituzionali e sul Jobs Act, e spiega che in tre minuti si riesce a risolvere dei quiz, non le domande che quei temi pongono. Però, a entrambi e a quel che rappresentano, ora chiedo qualche atto consequenziale in più; non basta dire il giusto se poi non si prova a perseguirlo, costi quel che costi, pure la caduta di un governo che non ha alternative, sebbene sia il terzo di fila con il marchio dell’ineluttabilità.
Per tornare al discorso di prima, chi governa il Paese e le leve della società comunicativa, ha inteso da tempo, e avendone l’interesse, di far credere che l’unica cosa che contasse in un’azione fosse la rapidità con la quale è realizzata. Ma in un secondo si può nondimeno fare una stupidaggine colossale, così come capolavori assoluti hanno richiesto periodi lunghissimi per vedere la luce.
Anzi, direi che, cum grano salis, come suggeriva Plinio il Vecchio, il tempo è un alleato del bene e della qualità. Basterebbe il caso degli esodati per ricordare a una politica frettolosa di quanto la celerità con finalità comunicative sia spesso cattiva, se non maligna, consigliera. Prendersi la pena di valutar meglio le cose non è obbligatorio, certo, ma aiuta, e non poco.
Cose vecchie come Plinio, vero? Fuori tempo e fuori epoca; qui si è ai giorni in cui si corre, come ripeteva il Bianconiglio ad Alice, senza nemmeno fermarsi a chiedere “dove?” o “perché?”. Ragionare sulle questioni, sui temi, sugli atti? Roba da gufi, rosiconi e paludati; non scherziamo.
A proposito di scherzi, vi lascio con le parole di quello con cui Leopardi chiude i suoi Canti: “Io mirava, e chiedea:/ Musa, la lima ov’è? Disse la Dea: / La lima è consumata; or facciam senza./ Ed io, ma di rifarla/ Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?/ Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca”.
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