Ha ragione Giuseppe Giulietti quando dice che la sentenza di Milano che ha risarcito per danni morali il giornalista Paolo Carta e il quotidiano L’Unione Sarda colpiti da una querela temeraria andrebbe inviata per conoscenza ai legislatori che stanno per approvare, peggiorandole, le norme sulla diffamazione. Come lascia intendere lo stesso Giulietti, però, non è il caso di farsi troppe illusioni: sul diritto di cronaca il clima politico è sempre più pesante.
Lo dimostra chiaramente la classifica sulla libertà di stampa stilata da Reporters sans frontières: l’Italia ha perso altre venti posizioni, precipitando oltre il settantesimo posto, proprio per la crescita esponenziale delle querele temerarie e delle relative richieste di mega risarcimenti per i “danni” provocati dalla pubblicazione di notizie vere ma scomode.
Andiamo per punti. Con una premessa: la diffamazione – a maggior ragione quella a mezzo stampa – è un reato grave. Nel difendere il diritto-dovere di cronaca, i giornalisti sbaglierebbero a sottovalutare i danni alle persone e alla stessa credibilità della nostra professione che possono essere provocati da una penna usata in modo scorretto per incuria o malafede.
Ed eccoci al primo punto. Perché si possa parlare di condanne e di risarcimenti pecuniari dovrebbe essere obbligatorio accertare prima in via penale se si tratti effettivamente di diffamazione. La possibilità di aggirare questo accertamento ha già scatenato la pratica dei risarcimenti intimidatori. Il progetto di riforma, con la depenalizzazione del reato di diffamazione, sposterebbe tutti i contenziosi direttamente in sede amministrativa. Il giornalista diventerebbe ancora di più l’anello debole del sistema. Altro che cane da guardia della democrazia. Non potrebbe più difendersi dimostrando di aver scritto la verità e di aver rispettato le regole del diritto di cronaca (verità, continenza, pertinenza, interesse pubblico e tutto il resto del decalogo dettato dalla Cassazione) ma sarebbe chiamato ogni volta a giustificare le ragioni che lo hanno spinto a pubblicare una notizia che comunque, suo malgrado, danneggia l’immagine pubblica di un potente o di un’azienda.
Secondo punto. Il rischio di finire dietro le sbarre sarebbe scongiurato dalla depenalizzazione del reato di diffamazione, ma, paradossalmente, il giornalista sarebbe meno libero. Meglio stare in cella o essere chiamati a pagare somme di denaro in grado di mettere in crisi persino il giornale? Di fronte al rischio del carcere il giornalista può decidere di andare avanti nel suo lavoro se è sicuro (come dovrebbe essere sempre) della verità e della correttezza della notizia e se, in caso di errore, fosse pronto a correggere il tiro dimostrando assoluta buona fede. Invece potrebbe arrendersi se il giudizio non fosse sul suo operato ma sui danni reali o presunti subiti dalla controparte: nell’impossibilità di difendersi, giornale e giornalista difficilmente accetterebbero il rischio di pagare risarcimenti salatissimi. E potrebbero esser portati, ancora più di quanto avviene oggi, a non pubblicare notizie scomode. Sembra proprio questo l’obiettivo dei nostri legislatori. Infatti, lo spauracchio del carcere viene usato per imporre soluzioni più utili a scongiurare la pubblicazione di notizie che danno fastidio al potere di turno.
Terzo punto. Le querele cosiddette temerarie, presentate per intimidire e minacciare giornali e giornalisti, stanno ormai dilagando. In altri paesi chi presenta una querela deve versare una cauzione, che servirebbe a risarcire il querelato in caso di assoluzione. Sarebbe anche in Italia un sistema utile a evitare quella che è diventata una vera e propria minaccia al diritto di cronaca. I giornalisti italiani hanno chiesto questa riforma, ma sinora hanno avuto solo risposte negative.
Quarto punto. Nel testo all’esame del Parlamento c’è anche la riforma del diritto di replica. Chi si sente diffamato o comunque danneggiato dalla divulgazione di una notizia avrebbe il diritto di farsi pubblicare il proprio punto di vista e il giornale avrebbe l’obbligo di pubblicare la replica, mentre al giornalista verrebbe tolto l’attuale diritto di controreplica, anche se il suo operato venisse criticato ingiustamente con ricostruzioni false o arbitrarie. Il risultato: lettori o telespettatori impossibilitati a capire alcunchè, cronache del tutto delegittimate.
Sono quattro ragioni che un sistema democratico sano spingerebbero il Parlamento a leggere la sentenza di Milano con occhi attenti e a rivedere profondamente il testo di riforma. L’augurio è che non siano proprio queste le ragioni a convincere il Parlamento ad andare avanti a testa bassa. Come andrà a finire? Lo capiremo dalla prossima classifica di Reporters sans frontières.
* Presidente Odg Sardegna