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La ‘ndrangheta e il Piemonte del sud

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Gli ultimi dubbi sono ormai scomparsi. Chi pensava che l’associazione mafiosa calabrese, nota in tutto il mondo con l’appellativo di ‘ndrangheta, fosse limitata alla pro vincia della capitale piemontese e quasi inesistente nelle provincie meridionali della regione, ha dovuto ricreder si. Qualche giorno fa, martedì sera di questa settimana, la Corte Suprema di Cassazione ha respinto i ricorsi dei diciassette imputati condannati dalla Corte di Appello del Piemonte per associazione a delinquere di stampo mafioso facendo divenire definitiva la sentenza del 10 dicembre 2013 con cui veniva contraddetta e ribaltata la precedente assoluzione degli indagati finiti in carcere con l’operazione “Albachiara”.

Per la direzione distrettuale antimafia diretta dal procuratore aggiunto Ausiello è la seconda sentenza favore vole in otto giorni dopo quella sul processo più impor tante noto come “Minotauro”. Tutto è nato da un’indagine dei carabinieri del reparto speciale(ROS) che ha rivelato l’esistenza di un locale di n’drangheta che è attiva nelle zone tra Asti, Alba, Bosco Marengo Novi Ligure e Sommariva del Bosco. All’origine c’era stata l’intercettazione dell’indagine Crimine registrata in un agrumeto a Rosarno dove il boss aveva ricevuto anche Rocco Zangagà e Michele Gariuolo, due compari piemontesi ,che gli chiedevano l’autorizzazione per aprire una nuova locale di ndrangheta ad Alba(Cuneo) e per distac carsi da quella capeggiata dal capo Rocco Pronesti . L’indagine è diretta dalla Dda di Torino(pm Roberto Sparagna, Monica Abbatecola ed Enrico Arnaldi di Balme ) e sfocia negli arresti del 21 giugno 2011. I legami della cosca piemontese con “la casa madre e con le locali in Liguria, gli incontri e i riti di affiliazione, ma scarseggiano i reati compiuti dal gruppo criminali e per questo il processo diventa complicato. Al termine del rito abbreviato l’8 ottobre 2012 il gup del tribunale di Torino Massimo Scarabello assolve i 17 imputati per ché ritiene che il reato principale di cui erano accusati, il 416 bis, non possa essere contestato in quanto manca il metodo mafioso. L’unico ad essere condannato è il boss Pronestì ma soltanto per detenzione di armi.

Sebbene il “capo locale” avesse riconosciuto di aver fatto parte del l’ndrangheta e si fosse dissociato, non era bastato a con vincere il gup dell’esistenza di un’organizzazione criminale nel basso Piemonte. Poco più di un anno dopo, la Corte di Appello ribalta la decisione. Secondo i giudici di secondo grado c’erano le prove per ritenere quella loca le una struttura autonoma e capace di intimidire. A dimostrarlo era il “dissidio” durante una riunione della commissione territoriale del Comune di Alessandria tra uno degli imputati Giuseppe Caridi, un ex consigliere del PDL affiliato alla ‘ndrangheta” dal 28 febbraio 2010 e il politico dell’IDV Paolo Bellotti.

Quest’ultimo criticava la gestione della commissione fatta da Caridi per facilitare l’approvare di delibere con cui venivano facilitati i lavori di un’impresa edile di Sergio Romeo, altro imputato del processo, interessato alla speculazione edilizia di Valle San Bartolomeo, una frazione di Alessandria. In quell’occasione Bellotti diede a Caridi del quaraqua e l’affiliato di tutta risposta gli lanciò una se dia. Bellotti accolse l’invito a non denunciare l’episodio. E anche un simile episodio fece capire agli inquirenti le caratteristiche del sodalizio consolidatosi nella parte meridionale del Piemonte e che solo oggi è stato colpito dalla sentenza definitiva della suprema corte. Con questa seconda sentenza è chiara la struttura dell’ organizzazione nella regione e la sua forza di attacco e di presenza rispetto alle altre associazioni mafiose altrettanto presenti nella regione confinante con la Francia e gli altri stati europei.


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