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La grande riforma Rai non c’è più

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Doveva essere una riforma “storica”, capace di sganciare l’azienda pubblica Rai, l’impresa culturale più importante del Paese, dai partiti e dai loro condizionamenti. Purtroppo nel disegno di legge (Renzi ha rinunciato al decreto legge) non compare più la Fondazione modello Bbc, cioè l’organismo in grado di garantire l’autonomia politico-editoriale della Rai. Il Consiglio di amministrazione di Viale Mazzini dai 9 membri attuali si riduce appena a 7 (e non a 5, com’era stato fino alla legge Gasparri) e viene ancora nominato dalla politica: 4 consiglieri dal Parlamento con preferenza unica, 2  dal Governo, 1  dall’assemblea degli 11.700 dipendenti Rai. Ed è la sola novità che ha però il sapore di un dolcetto corporativo. Quanto al super-manager destinato ad assumersi sulle spalle le molteplici attività produttive e di servizio della radiotelevisione di Stato (informazione nazionale e regionale, cultura, intrattenimento e spettacolo, sport, fiction, cinema, tecnologie, ecc.), non si sa ancora se sarà prescelto direttamente dal presidente del Consiglio o dal Governo nel suo complesso. Comunque con un filo diretto più robusto con l’esecutivo, a quanto si capisce dopo mesi di ponzamenti della commissione Giacomelli.

Quindi – a parte il consigliere eletto dai dipendenti Rai – gli altri saranno espressione del Governo e del Parlamento, quindi della politica, coi soliti dosaggi partitici. Dal 1993 alla legge Gasparri i 5 membri del CdA venivano quanto meno nominati dai presidenti di Camera e Senato e sceglievano al loro interno il presidente. Lo stesso CdA nominava il direttore generale che, col tempo, ha acquisito grandi poteri decisionali. Con la Gasparri, pessima legge, tutta favorevole a Mediaset, il Ministero del Tesoro (proprietario delle azioni Rai dallo scioglimento dell’Iri, cioè dal 2001) nomina il presidente e un consigliere. Gli altri componenti sono prescelti dalla Commissione parlamentare di indirizzo e di vigilanza. Vedete grandi differenze dalla Gasparri alla Renzi? Francamente no. Forse qualche passo indietro.

L’autonomia politico-editoriale delle consorelle europee è invece assicurata da un organismo superiore di garanzia  e da un robusto canone. Ora Matteo Renzi fa capire che lui il canone lo azzererebbe volentieri. In tal caso la Rai diverrebbe in breve tempo un’azienda in caduta libera, un ferrovecchio. Infatti, se un tempo i ricavi da canone e da pubblicità si bilanciavano, oggi il canone (pur essendo il più basso e il più evaso d’Europa) fornisce il 64 % dei ricavi Rai e la pubblicità, letteralmente crollata, soltanto il 24-25. Ciò significa che con meno canone la Rai porta i libri al Tribunale fallimentare oppure licenzia migliaia di dipendenti, subito. In Olanda, cancellato il canone, sostituito da uno stanziamento governativo, la Tv pubblica è finita alla mercé dei partiti populisti che l’hanno con continue riduzioni di budget dissanguata. Un’altra idea adombrata da Renzi è che una rete Rai possa essere spogliata della pubblicità, forse Rai Tre, per rendere un servizio pubblico integrale. Già, ma con quali soldi se il canone resta inchiodato o viene ridotto, mutilato? Se la stessa pubblicità istituzionale viene data da Renzi al 57 % a Mediaset (con un incremento del 369 % rispetto a Letta)? Se il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, destina quasi tutto il proprio budget pubblicitario al Biscione? Il premier, bontà sua, rinuncia al decreto legge, ma comunica che vuol “fare in fretta”. Con queste linee-guida? Insomma, la Grande Riforma proprio non c’è. Anzi, il cordone ombelicale Governo-Rai si rafforza. Sulle risorse, sulla selezione dei dirigenti, sui piani editoriali poi, nebbia fitta. E per la mission? Parole, parole, parole…E c’è il contratto triennale di servizio da rinnovare in vista del 2016 fra Stato e Rai. Non chiacchiere del tipo “Giù le mani dalla Rai”.

* Uscito il 30 marzo sui quotidiani del gruppo Espresso (“Tirreno”, “Mattino di Padova”, “La nuova Venezia”, “Tribuna di Treviso”, “Provincia Pavese”, “La Città di Salerno”, ecc.).    


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