“I media potrebbero contribuire alla ricerca della felicità dando rilievo alle ricchezze interne delle persone, esaltando valori come la creatività, la cooperazione, la condivisione…” La pensa così Guy Michel Franca (nella foto), formatore e membro della Società Francese di Psicologia, intervistato da Articolo21 in occasione della giornata mondiale della felicità istituita dall’ONU che si tiene il 20 marzo. Negli ultimi anni Michel Franca si è occupato di sviluppare un approccio integrato alla conoscenza del Sé, alla valorizzazione della persona e allo sviluppo delle potenzialità individuali, attraverso l’osservazione e la ricerca sui comportamenti umani e i processi di coscienza. Ha chiamato questa nuova metodologia “L’Etica delle Relazioni Umane ®”.
Da oltre 20 anni Lei si occupa di emozioni e comportamenti umani, in particolare di comprendere come la felicità possa diventare un percorso possibile. Ma cos’è davvero questa felicità a cui tutti aspiriamo? E’ davvero raggiungibile o piuttosto è un’utopia, un sogno?
Finalmente l’Assemblea generale delle Nazioni Unite giungendo alla consapevolezza che anche la ricerca della felicità è da considerarsi tra gli scopi fondamentali dell’umanità e un diritto primario, alla stregua dell’alimentazione, delle cure mediche, dell’istruzione, del lavoro e della pace, nel 2012 ha deciso di proclamare il 20 marzo Giornata Internazionale della Felicità, invitando tutti gli stati membri e gli altri organismi internazionali e regionali, così come la società civile a celebrarla in modo appropriato, anche attraverso attività educative di crescita della consapevolezza pubblica.
Questa giornata ha un grande valore perché va a confermare, a livello istituzionale ed internazionale, che la felicità non è affatto un sogno. Ed io sono dello stesso avviso.
Il problema fondamentale è che siamo vittime delle nostre strutture mentali incompiute. La percezione della felicità è possibile grazie all’attivazione dei centri nervosi adibiti alla percezione del piacere. La variazione nella percezione dello stato di felicità dipende dai significati che l’individuo ha codificato a partire dal primo istante di vita fuori dal grembo materno. Ognuno di noi stabilisce la propria codifica: in questo modo, quello che rende felice una persona lascia l’altra indifferente, perché i significati di una determinata situazione non le permettono l’attivazione dei centri del piacere. Si vive lo stato di felicità “a tratti”, in balia degli eventi e delle persone incontrate, capaci o no di soddisfare i nostri bisogni. Con questa attitudine la felicità è pura utopia anche perché, una volta raggiunta grazie alla percezione di uno stimolo positivo, subentra il fenomeno dell’abitudine. E’ cosi che il primo mazzo di fiori ricevuto dall’innamorata è un evento che scatena la felicità con tutto il corredo di emozioni positive, ma il trentesimo mazzo di fiori, anche se è più grande e più bello… ci viene a noia…
Riassumendo questa semplice osservazione, possiamo dire che l’individuo è felice in base agli stimoli che riceve dall’esterno: che sia felice o no dipende dall’esterno!
Le neuroscienze e lo studio delle funzioni della mente ci insegnano che un’altra strada è percorribile e il sogno della felicità diventa realtà vissuta. Si tratta di completare quello che madre natura ha cominciato dotandoci dei centri del piacere, offrendoci la possibilità di attivarli anche dall’interno, senza aspettare più, disperatamente, lo stimolo dall’esterno. Oggi è possibile realizzare tutto ciò con tecniche semplici.
Nel suo libro “Oltre i confini del pensiero” (Ed. EUR 2014) Lei collega etica e felicità. Può spiegarci meglio il perché di questo collegamento ?
Ho osservato che la possibilità di attivare i centri del piacere dall’interno e di aumentare la capacità di gestione delle emozioni porta naturalmente l’individuo ad adottare un comportamento etico nelle sue relazioni. Gli stati interni che permettono di realizzare lo stato di felicità, infatti, ci conducono anche ad esprimere sentimenti e comportamenti etici. Questo perché, conquistando un’autonomia emotiva, riduciamo automaticamente le pretese verso l’esterno e il bisogno di “usare” le relazioni, gli oggetti o l’ambiente per compensare i nostri bisogni. Mentre la morale dipende da fattori culturali, l’etica è una caratteristica che definisce la realizzazione completa della propria umanità ed è indipendente dalla cultura e dalle tradizioni trasmesse a livello sociale.
Qual è il ruolo del mondo dell’informazione rispetto alla percezione della felicità? In che modo i media possono influenzare lo stato di benessere di una società?
Domanda interessante. Ogni informazione trasmessa è caratterizzata dalla descrizione fattuale di un evento, ma spesso vengono inseriti elementi soggettivi che orientano l’ascoltatore. Possiamo dare un orientamento alla felicità attraverso l’informazione o al contrario aumentare il pessimismo, la delusione, la sensazione di perdita di senso.
I media potrebbero favorire questo processo dando rilievo, ad esempio, alle ricchezze interne delle persone, esaltando valori come la creatività, la cooperazione, la condivisione, lo scambio, l’integrazione, il rispetto, l’aiuto, l’accoglienza, l’ascolto, il principio di mediazione, l’assertività, la cittadinanza attiva, l’altruismo, insomma quei valori capaci di orientare verso una visione integrata della realtà, dove non siano favorite le analisi parziali ma la presa in considerazione di ogni situazione nella sua complessità e nel rispetto delle diversità. È proprio la capacità di percepire la ricchezza della diversità a favorire l’espressione elevata dell’umanità.
E’ possibile oggi parlare di libertà di espressione? Che rapporto c’è tra libertà d’informazione, etica e felicità ?
Per me la libertà d’informazione è essenziale, permette di canalizzare dei processi interni che altrimenti rimarrebbero bloccati e potrebbero condurre ad un serio conflitto sociale. Come lei sa, sono francese. La patria dei diritti umani, la Francia, è stata condannata ben 33 volte dalla corte europea dei diritti umani e ciò la pone dietro la Russia. Non possiamo parlare di libertà di espressione in Francia; ultimamente un artista come Dieudonné è stato condannato e il Consiglio di Stato ha impedito i suoi spettacoli. Abbiamo tutti in mente “Charlie”. Osservando questi due eventi, possiamo dedurre che sia lo Stato, sia gli estremisti non hanno il desiderio di un’autentica libertà di espressione. Secondo me, questo è un indicatore di immaturità del sistema sociale, dove si vuole imbavagliare e reprimere l’espressione di chi può rappresentare un elemento di disturbo nei confronti delle proprie idee, per il proprio interesse economico o potere politico. La riduzione della libertà di espressione favorisce il comunitarismo, deleterio per la democrazia. Spinge l’individuo a cercare la felicità dentro la sua comunità e, troppo spesso, chi non appartiene alla comunità viene stigmatizzato. Il problema non è la comunità in sé, ma il processo d’identificazione con la comunità che, al fine di rinforzarsi, tende ad attribuire all’esterno la responsabilità del disagio, qualsiasi esso sia.
Per me dunque, la libertà di espressione del singolo individuo e dei media in generale è essenziale, perché diversamente si rischia di reprimere sentimenti che, non trovando nell’ambiente sociale uno spazio per potersi esprimere, continuano ad essere alimentati in modo subdolo.
Tornando alla domanda, la libertà d’informazione offre il materiale che permette l’attivazione del processo di valutazione e un’integrazione dei processi di pensiero. Se io avessi a disposizione una sola sorgente d’informazione non avrei modo di valutare in modo oggettivo; sarei praticamente costretto ad attivare un pensiero lineare dove la scelta è tra l’essere o il non essere d’accordo con l’informazione che mi viene presentata. Questo processo richiama un pensiero rigido, un’organizzazione della mente basata su due polarità opposte: tutto buono o tutto cattivo. Una tale organizzazione non è compatibile, secondo me, con un processo etico che richiede invece l’attivazione di un pensiero complesso basato sull’integrazione di più punti di vista. Per essere felici abbiamo bisogno di saper pensare in modo complesso, il che è incompatibile con una riduzione della libertà di espressione.
La politica sta dando il suo contributo?
Secondo Lei? Io non credo proprio, le ho citato il caso della Francia; in Italia prende altre forme con la concentrazione dei media in un sistema unitario: se cambio canale non cambia l’orientamento dell’informazione. I media possono dare certe informazioni finché sono in linea con l’orientamento degli azionisti e dei clienti degli spazi pubblicitari. Quello che osserviamo è che questo non viene denunciato dalla “politica” perché è un sistema che fa comodo a tutti. Non dobbiamo illuderci: l’informazione viene costantemente pilotata dal potere politico. Tenga presente che non mi considero affatto un cospirazionista, ma certi eventi e certe circostanze danno da pensare e offrono un ampio spazio di riflessione. Vorrei aggiungere che le cose potrebbero essere diverse se il sistema politico fosse orientato verso un obiettivo collettivo e non, come spesso accade, un obiettivo elettorale. In assoluto la politica potrebbe dare il suo pieno contributo al benessere dei cittadini: in questo caso avrebbe interesse a dare spazio alle opinioni di tutti e a favorire la libertà e la molteplicità di espressioni, che sono il riflesso più completo della comunità umana.
Perché, secondo lei, i programmi di cronaca nera stanno avendo sempre più successo in termini di audience? e perché, invece, le “buone notizie” non fanno ascolto ?
Questo fenomeno secondo me trova una spiegazione nel processo del rispecchiamento e nell’identificazione proiettiva. Guardo il programma che mostra una realtà simbolicamente virtuale per me. Il programma, infatti, benché tratti circostanze reali, mi arriva tramite il televisore o il computer: questo crea inevitabilmente una distanza tra me e l’evento. Nello stesso tempo, quello che si osserva nell’accadimento tragico risveglia i mostri interiori che abbiamo tutti nel più profondo di noi, legati a violenze represse, ansia, rabbia, gelosia, sofferenze, morte. A questo punto, vedendo la sofferenza sullo schermo, per effetto transitivo, è come se mi liberassi della mia: “è successo sì, ma a qualcun altro … non a me …”. E questo paradossalmente mi rassicura, perché in qualche modo allontana la possibilità che possa accadere a me .
Parallelamente avviene un altro fenomeno: l’identificazione delle ansie senza nome. Davanti all’evento tragico è come se pensassi: “Lo sapevo, sapevo che poteva succedere …”. In questo modo, dando al pericolo un nome, a volte un viso, a volte appunto identificandolo con una comunità, ho la possibilità di orientare il focus ansioso su eventi particolari e liberare la mente dall’ansia relativa ad altri ambiti della vita. Avviene una sorta di contenimento delle emozioni negative.
Le buone notizie, a livello psicologico, sono categorizzate diversamente. La buona notizia è inconsciamente attribuita alla fortuna, a circostanze che difficilmente potranno capitare a me. Dunque non è facile potersi proiettare in quella situazione. L’informazione positiva risulta poco credibile e poco raggiungibile dal singolo e lo schermo non aiuta a ridurne la distanza.
Internet ha rivoluzionato il modo di fare informazione. In particolare i social media hanno creato un nuovo modo di comunicare le notizie usando un linguaggio semplice ed immediato. Come valuta questa immediatezza e semplificazione?
Come ho già detto, la semplificazione riduce la ricchezza dell’informazione e impoverisce la struttura stessa del pensiero. Tuttavia è da sottolineare che Internet ha sviluppato in modo esponenziale l’accesso all’informazione ed è certo che troviamo sul web ogni tipo di notizia. Se la vogliamo ridotta ci viene proposta con queste caratteristiche, ma possiamo anche trovare un’informazione di qualità, che sarebbe più difficile da trovare senza internet.
Secondo me, proprio perché sul web la libertà è maggiore, ognuno può orientare la ricerca secondo il livello di complessità che preferisce, rispetto ad un determinato contesto.
Grazie agli smartphone siamo sempre raggiungibili, sempre interconnessi e bombardati di notizie. Il rischio è essere sottoposti all’invasività delle news. È necessario secondo lei mettere un limite a questo fenomeno o è una direzione di progresso?
Indubbiamente è una direzione di progresso, a condizione che non modifichi il livello relazionale degli individui. Al ristorante non è difficile osservare una famiglia a pranzo o cena, in cui ognuno è occupato con il proprio cellulare o tablet, e rendersi conto che nessuno comunica. Ognuno si chiude nel suo cerchio di informazioni e non condivide. Dunque, direi che, in assoluto, è una direzione di progresso ma dovremmo essere più consapevoli dell’importanza di delimitare degli spazi di tempo nei quali l’informazione non invada lo spazio di scambio. Ad esempio, penso che i cellulari debbano restare spenti durante le lezioni a scuola. Questo renderebbe ancora più prezioso l’accesso all’informazione negli spazi autorizzati.
Sempre più studi segnalano come le nuove generazioni nate nell’era di internet, smartphone e videogiochi ne siano troppo spesso in balia e quanto questi mezzi siano l’oggetto delle nuove dipendenze. Qual è il compito delle istituzioni educative, scuola e famiglia nell’era della comunicazione 2.0? Esistono strumenti efficaci per aiutare bambini e genitori a gestire il disagio provocato dalle nuove tecnologie e più in generale dall’impoverimento di valori a cui stiamo assistendo?
Certamente esistono strumenti efficaci. Uno strumento efficace è senza dubbio l’incremento dello spazio relazionale. Vivere insieme nella stessa casa non significa comunicare. Un bambino si costruisce, costruisce la sua mente, il suo modo di pensare e di pensare il mondo attraverso la relazione nell’ambiente familiare. Se l’ambiente delega la relazione a videogiochi e smartphone, la costruzione avverrà attraverso elementi che non possono sostituire la qualità della relazione umana e di conseguenza si manifesteranno delle carenze di strutturazione. Studi fatti su bambini con meno di 6 anni di età hanno messo in evidenza che lo scarso rendimento scolastico è proporzionale al tempo trascorso davanti a TV o videogiochi. All’età di 14 anni più di 2 ore di TV al giorno aumentano del 50% il rischio di dispersione scolastica. Sono dati inquietanti.
Direi che i genitori devono rimettere al centro della famiglia la relazione, la comunicazione, la cooperazione, l’ascolto. I valori umani devono essere portati dalla famiglia, non dallo schermo, perché solo nella relazione reale certi valori possono essere integrati.
In paesi come il Buthan e l’Uruguay la felicità è diventata il parametro fondamentale per valutare la crescita ed il benessere. Pensa che l’Europa sia pronta per un simile passo?
Questi due paesi sono un esempio, Jose Mujica e Sua Maestà Jime Khesar Namgyel Wangchuck incarnano quella dimensione di umanità e cittadinanza di cui parlavo e per questo rendono possibile e promuovono la cultura della felicità. L’Europa, secondo me, è troppo stretta nella morsa dei lobbisti e dei giochi di potere tecnocratici e politici per prendere un tale orientamento.
Dobbiamo comunque avere fede in un cambiamento profondo della società. Come diceva Gandhi, dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. Un giorno forse un partito avrà il coraggio di chiedere che venga seriamente preso in considerazione il livello di felicità percepito dai cittadini e i giochi politici potranno essere orientati verso quegli indicatori. Tutto ciò potrebbe avvenire in una generazione, a condizione che la felicità venga insegnata a scuola come s’insegnano la matematica o la storia. Intendo dire: insegnare i processi interni che portano alla felicità, in modo teorico e pratico. E’ proprio quello che ci proponiamo attraverso il Metodo dell’Etica delle Relazioni Umane®, un modello formativo orientato allo sviluppo del potenziale individuale e relazionale che ho elaborato in questi anni di osservazione e che oggi con la Fondazione Internazionale Verso l’Etica – Five onlus cerchiamo di portare in ogni ambito sociale, in particolare nel settore scolastico ed educativo. Proprio in questi giorni stiamo lanciando una campagna di in-formazione sulla felicità possibile l’Arte di Essere felici http://www.fiveonlus.eu/arte-di-essere-felici
Lo scopo è di promuovere una nuova modalità educativa dove insegnanti e genitori possano acquisire nuovi strumenti per accompagnare giovani e giovanissimi nel loro percorso di crescita fino a diventare un domani adulti felici e consapevoli.
Come vede il futuro? Esisterà l’era della felicità 2.0? Qual è il contributo che i media possono dare in questa direzione?
L’era della felicità 2.0 è l’era della comunicazione interpersonale, dell’acquisizione della coscienza da parte dell’individuo e della consapevolezza della propria unicità. È l’era dello sviluppo della capacità di accedere ad un pensiero complesso, che permetta di operare una sintesi tra più punti di vista, capace di accogliere il pensiero diverso, o meglio di vedere il diverso come una ricchezza. La felicità percepita in questo modo non è più stimolata dall’esterno, ma prodotta internamente dall’individuo stesso e la relazione diventa il luogo per condividerla. Per arrivare a questi livelli bisognerà abbattere, attraverso l’etica e la coscienza, le barriere del comunitarismo, sia territoriale che religioso. Le persone dovranno sentire nel loro profondo che la loro esistenza non dipende dal fatto che possiedano determinati valori piuttosto che altri, ma che prima di tutto esistono in quanto essere umani e che in quanto esseri umani hanno la possibilità di scegliere i propri valori. Questo è un punto essenziale. La dichiarazione dei diritti umani dice che ogni uomo nasce libero. Questa non è ancora una realtà: ogni uomo nasce e viene immediatamente condizionato dai valori della sua comunità. Questo condizionamento diventa la sua prigione e ostacola l’accesso alla sua felicità.
I media hanno la potenzialità e, forse potremmo dire la responsabilità, di informare sulle possibilità di accedere interiormente alla propria unicità, di rivelare i limiti di un’identificazione collettiva, di un pensiero unitario e omologante. L’uomo non è uomo perché adotta una religione piuttosto che un’altra. Il problema non è la religione o la territorialità; il problema è il processo identificativo che mi porta a pensare che senza quei valori non esisto; allora sono in prigione e costretto a vivere attraverso quei valori e solo quei valori. I media possono favorire la comunicazione di valori diversi, favorire l’integrazione, una visione allargata della mente umana; possono moltiplicare gli spazi che aiutano a diffondere una cultura della mediazione, dell’integrazione del pensiero, della comprensione dei processi conflittuali. Affermare l’importanza della relazione umana. Se lei ci pensa, cosa ci rende umani? È proprio la relazione, l’accoglienza, la condivisione, l’altruismo, la cooperazione. Questi valori appartengono all’umanità nel suo insieme, non a un paese, a una religione, a una comunità; e questi valori, proprio perché universali, ci permettono di orientarci e di realizzare la felicità.
L’arte di essere felici: http://www.fiveonlus.eu/arte-di-essere-felici/
Il video in cui Guy racconta il metodo dell’Etica delle relazioni umane e parla di “Felicità”: