Lo scorso 28 febbraio, il giudice Anna Cattaneo del Tribunale civile di Milano ha condannato una nota multinazionale a corrispondere al giornalista Paolo Carta ed al direttore de L’Unione Sarda, Paolo Figus, diciottomila euro a titolo di risarcimento del danno da “lite temeraria”, stigmatizzando la condotta del colosso societario che ha avviato un’azione legale nei loro confronti «nella piena consapevolezza del proprio torto, o quanto meno, omettendo di porre la normale diligenza nell’acquisizione della consapevolezza del proprio torto».
Il cronista ed il direttore della testata erano stati convenuti in giudizio, dopo essere stati già prosciolti in sede penale, per rispondere di una presunta “diffamazione” connessa ad un articolo (pubblicato il 21 aprile 2012) riguardante l’inchiesta coordinata dalla procura di Lanusei sugli effetti dell’inquinamento ambientale nell’area del poligono militare di Salto di Quirra.
Ha ritenuto il giudice che «il giornalista abbia correttamente riferito gli esiti delle indagini», riportando una notizia inoppugnabilmente veritiera, di sicuro interesse pubblico, nel rispetto di tutte le persone coinvolte, perfettamente corrispondente «al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria». Capita spesso – per fortuna – che i procedimenti nei riguardi di giornalisti che adempiono scrupolosamente ai loro obblighi deontologici e professionali, si concludano con il rigetto della pretesa dell’“attore” (come si dice nel lessico civilistico) o con l’archiviazione penale. È estremamente raro, invece, che coloro che trascinano i giornalisti innanzi ad un giudice, sulla base di argomentazioni manifestamente insussistenti e pretestuose, animati da un intento vessatorio che configura di per sé un clamoroso esempio di “abuso del diritto”, incorrano in una qualche sanzione. L’amarezza che deriva nell’animo del cittadino e dell’uomo di legge da questa incontrovertibile realtà è direttamente proporzionale al peso, non solo economico ma anche e soprattutto morale, che l’ingiusto coinvolgimento in una vicenda giudiziaria assume nella dimensione di vita di una persona per bene che deve attendere, solitamente, anni prima di veder riconosciuta la piena legittimità del suo operato professionale.
Eppure, come amava ripetere l’insigne giurista Francesco Carnelutti, il processo è sempre, a prescindere dal suo esito, una pena per l’innocente che lo subisce. Appaiono chiare, allora, le ragioni per le quali la sentenza del Tribunale di Milano è stata accolta, da quanti si battono da tempo per arginare il dilagante fenomeno delle azioni civili e delle querele “temerarie”, con grande soddisfazione e con non poco stupore. Risalta l’originalità di una pronuncia che restituisce attualità al disposto, ampiamente disapplicato, dell’art. 96 del codice di procedura civile che prevede la condanna al risarcimento dei danni arrecati da colui che agisce in giudizio «con mala fede o colpa grave», analogamente a quanto astrattamente previsto, a carico del querelante, dagli artt. 427 e 542 del codice di procedura penale. Una diffusa tolleranza giurisprudenziale rispetto allo strumentale ricorso alla lite/querela temeraria ha favorito, nel tempo, una recrudescenza di questa pratica a basso costo per la “falsa” persona offesa. Alcuni emendamenti al disegno di legge di riforma in materia di diffamazione, oggi in discussione alla Camera dei Deputati, prevedono l’introduzione di nuovi e più incisivi deterrenti volti ad impedire questo increscioso fenomeno giudiziario.
La soluzione all’annosa questione risiede, molto probabilmente, nel corretto bilanciamento costituzionale fra la possibilità di agire in giudizio a tutela dei propri diritti (art. 24 Cost.) e la salvaguardia del diritto-dovere di informazione (art. 21 Cost.). Per il momento, dobbiamo auspicare che la decisione del Tribunale di Milano non rimanga isolata ma che valga a segnare un vero punto di svolta, affermandosi quale monito a cui far riferimento per «scoraggiare comportamenti strumentali che – come ineccepibilmente si rileva nella sentenza de qua – ostacolano la funzionalità del servizio giustizia, che violano il dovere di lealtà e probità di cui all’articolo 88 del codice di rito e che provocano senz’altro danno alla controparte in conseguenza dell’ansia e del turbamento inflitti, in ogni caso in quanto si è chiamati a difendersi, ma in particolare nel caso in cui è messa in discussione la propria professionalità» (sentenza Tribunale di Milano, sez. I civile, dott.ssa Anna Cattaneo, 28 febbraio 2015).