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Il Centro Astalli, la Siria e un gesuita

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Il Centro Astalli divulga la drammatica lettera di un gesuita dalla Siria, terra di lutti senza fine

Più di 220.000 i morti, più di un milione i feriti e 12,2 milioni le persone che hanno urgente necessità di assistenza salvavita. In Libano, una persona su quattro è un rifugiato siriano, per un totale di quasi 1,2 milioni di rifugiati in un paese di soli 4 milioni di abitanti, secondo il Jesuit Refugee Service in Siria.

Il Centro Astalli – Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia chiede alla comunità internazionale di porre immediatamente fine alla guerra in Siria. Esorta inoltre le istituzioni europee e gli Stati dell’Unione a garantire l’accesso alla protezione internazionale ai profughi dal Medio Oriente, creando canali umanitari sicuri che sottraggano la popolazione in fuga dalla guerra al giogo dei trafficanti.

Il Servizio dei Gesuiti per i rifugiati in Siria racconta di una popolazione civile allo stremo e cerca ogni giorno tra indicibili difficoltà di dare voce alla maggioranza inascoltata dei siriani.

P. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli: “vi invito a leggere le parole del mio confratello Nawras da cui emerge potentemente l’assurdità della guerra. Abbiamo la responsabilità di non restare indifferente al grido di dolore di un popolo allo stremo. Lavoriamo insieme per la pace. Ciascuno può fare la sua parte. I rifugiati sono qui a ricordarci che non lontano da noi ci sono paesi sotto le bombe e un’umanità che disperatamente cerca di sopravvivere. Chi rimane nei Paesi in guerra è una maggioranza inerte, indifesa a cui abbiamo il dovere di dar voce”.

Beirut, 24 marzo 2015 –
Siamo entrati nel nuovo anno con tutta la speranza che eravamo riusciti a raccogliere dentro e fuori di noi, prendendola dalle nostre famiglie, dalla comunità, addirittura dai nostri nemici. L’abbiamo messa tutta insieme e condivisa tra noi a piccole dosi, appena sufficienti per andare avanti. Abbiamo pregato e sognato che tutto ciò sarebbe stato l’inizio della fine dell’orrore; che nel 2015 saremmo riusciti a gettarci alle spalle gli ultimi quattro anni, e dimenticare tutto il sangue versato – i padri persi e le madri in lutto, i bambini affranti, le città distrutte e le aspirazioni svanite.

Speravamo che chi era coinvolto direttamente nel conflitto a livello regionale e internazionale avrebbe trovato il modo di porre fine alle ostilità. Li abbiamo pregati di smettere di bombardare i civili e gli operatori umanitari. Gli abbiamo chiesto di trovare un modo per generare la volontà politica di porre fine al conflitto attraverso una soluzione negoziale. Ma sembra che i nostri appelli siano rimasti inascoltati.

I mesi di gennaio e febbraio ci hanno invece portato le violenze più brutali viste fino a quel momento. Ci sono piovuti addosso atti di violenza indiscriminata da tutte le parti in conflitto – proiettili, barili-bomba, bombardamenti, missili, mortai, violenze sessuali, arresti arbitrari, sequestri, torture, decapitazioni ed esecuzioni; una raffica senza fine di crimini contro la nostra umanità. Come civili, siamo stati privati della nostra libertà ed esposti al mondo come uno spettacolo, mentre la comunità internazionale ha convenientemente evitato di prendere piena responsabilità per il ruolo assunto nella macabra rappresentazione in corso in Siria e nel Medio Oriente.

In tutta onestà, è come se fossimo stati più vicini a una soluzione nel 2012/2013 di quanto non lo si sia adesso nel 2015. Sia l’inizio, sia la fine di questa follia sono due punti così distanti che ora come ora non vediamo altro davanti a noi se non oscurità senza fine. Che speranza abbiamo?

Per i nostri figli – nessun futuro da offrire.
Per i nostri anziani – lapidi senza nome, case vuote, il dolore di seppellire i figli.
Per noi – solo esistenze distrutte.
Migriamo a milioni, stringendoci in città che non sono le nostre, gli uni accanto gli altri come sardine in scatola. Scappiamo in paesi vicini che non ci vogliono, che non possono sostenerci, solo per poter respirare aria che non abbia l’odore della morte. Ci avventuriamo nei mari per raggiungere l’Europa sapendo che potremmo annegare. Ma che differenza fa? Stiamo comunque annegando nel nostro sangue in Siria, perché non farlo in acque pulite che almeno non hanno un sapore così amaro?

Sono parole che riassumono a malapena la tragedia e la disperazione diventata dura realtà per i siriani che entrano nel quarto anno di uno dei conflitti più brutali dell’ultimo secolo.

In Siria, i decessi aumentano senza controllo; si stima siano più di 220.000 i morti, più di un milione i feriti e 12,2 milioni le persone che hanno urgente necessità di assistenza salvavita. Nel Libano, una persona su quattro è un rifugiato siriano, per un totale di quasi 1,2 milioni di rifugiati in un paese di soli 4 milioni di abitanti. Dopo quattro anni in cui l’afflusso di rifugiati è stato costante, le infrastrutture del piccolo paese sono vicine al collasso. Nella regione, la tradizionale ospitalità sta venendo meno e nascono tensioni tra comunità ospitanti e comunità rifugiate. I siriani si sentono intrappolati nella regione, e non hanno un altro posto sicuro in cui andare. I colloqui di pace che si sono svolti a Mosca in gennaio non hanno ancora prodotto alcun passo avanti per nessuna delle parti in causa.

I siriani si sentono più disperati e divisi che mai. Ci sentiamo al contempo abbandonati e attaccati da tutti. Quando al gruppo di lavoro del JRS ad Aleppo è stato chiesto se avesse notato un aumento degli attacchi aerei dovuto a quelli sferrati dalla coalizione internazionale contro l’ISIS, la risposta è stata:
“Pensate che sappiamo riconoscere la differenza tra un attacco e l’altro? Non ha importanza chi attacca, sono comunque bombe lanciate su di noi”. Nelle parole di un padre di Homs: “Noi siriani preferiamo rimanere in Siria. Amiamo il nostro paese, ma è diventato insostenibile. Se non sono le bombe, moriamo di fame. Anche con un lavoro, non riesco a sfamare la mia famiglia perché i prezzi aumentano e le riserve diminuiscono. È come se ogni giorno avessimo meno speranze”.

Il JRS chiede a chi abbia potere nella comunità internazionale – ovvero Francia, Iran, Qatar, Russia, Arabia Saudita, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti – di mettere da parte gli interessi nazionali per il bene comune, facendo pressione perché tutte le parti coinvolte cessino le violenze contro i civili e gli operatori umanitari aprendo la strada a un dialogo politico serio. L’azione concertata della comunità internazionale genererebbe la volontà politica di trovare una soluzione negoziale al conflitto.

Una crisi di questa grandezza ha posto uno stress senza precedenti sul sistema umanitario. Non è solo questione di finanziamenti; dopo quattro anni di violenze sempre in aumento, gli approcci tradizionali utilizzati per gestire il conflitto si sono rivelati insufficienti. L’attuale capacità umanitaria delle NU e delle ONG internazionali non può soddisfare le necessità della popolazione siriana, né quelle delle comunità vicine. Molto resta ancora da fare per accedere a queste persone, e sono le organizzazioni di base e le reti civili siriane ad avere questa possibilità.

I benefattori internazionali dovrebbero sostenere la risposta umanitaria che si è sviluppata organicamente all’interno della società siriana, poiché è lì che si trovano le soluzioni sostenibili. È di vitale importanza rafforzare i siriani dando loro l’opportunità di trovare soluzioni proprie e soddisfare le necessità che hanno all’interno del paese. Tuttavia, se non si pone freno alle violenze contro i civili, nulla si può fare per fermare l’esodo di queste persone in fuga per la vita, e sarà un’altra opportunità persa di aiutare i siriani che cercano una soluzione pacifica.

Il nostro appello al mondo è questo: “Non fateci celebrare il quinto anniversario della guerra in Siria”. Nawras Sammour SJ direttore JRS Siria

Da ilmondodiannibale.it


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