I social network sono la più grande rivoluzione informativa delle società postmoderne o un orpello tutto autoreferenziale, tutto interno al proprio narcisismo? Rappresentano la più grande piattaforma per condividere informazione e per scovare o ottenere notizie o un luogo di ciarla, di perdita di tempo, di astensione dai doveri del lavoro (anche quello giornalistico?). Della vicenda di Leonardo Metalli potete leggere nella nota dell’avvocato D’Amati. L’Associazione Stampa Romana condivide un percorso di tutela sindacale del collega. Ma la vicenda, paradossale, pone un tema sul quale e’ indispensabile confrontarci.
I social network rappresentano un allungamento, un’estensione della nostra personalità. La dimensione sociale implica l’interazione con un gruppo infinitamente ampio di persone. E l’interazione scatta nella misura in cui quello che ho da dire può coinvolgere questo numero tendente ad infinito di persone, sia che la misura siano 140 caratteri sia che si articoli un pensiero più lungo. Il pensiero, le notizie, la capacità di analisi sono gli attrezzi di lavoro di un giornalista. Non e’ un passaggio necessario ma, giocoforza, istinto del giornalista e disponibilità del mezzo convergono verso un comune interesse, l’articolo 21 (con i limiti previsti dalla legge). Dunque i social rifrangono la libertà di espressione, e, nello stesso tempo, costituiscono nuova benzina al valore costituzionale.
Il punto e’ che la base comunicativa dei social e’ orizzontale. Per funzionare ci deve essere scambio. Quelle griglie non sopportano sacerdoti che non accettano il confronto (a meno che si tratti di propaganda, perfettamente legittima, ma che il web alla fine rigetta e rifiuta come una moneta da tre euro). Una logica diversa dal controllo, dalla verticalità, più vicina alla velocità e alla diffusione immediata. Se vogliamo e’ la versione moderna del consenso, delle critiche, e degli spunti attraverso la rubrica della posta dei quotidiani. Nella versione moderna il seguito, i followers si formano sulla firma, sullo stile, sul volto e sull’interazione. Ecco perché interpretazioni restrittive sui social, da parte di aziende che fanno dell’informazione il centro dell’azione, ci sembrano non solo anacronistiche ma seguono, in direzione ostinata, vecchie logiche, vecchi schemi di un’epoca fordista dell’informazione, non comprendendo (o fingendo di non comprendere) la posta in gioco sulla libertà complessiva di informare ed essere informati nel ventunesimo secolo, non comprendendo (o fingendo di non comprendere) che il buon lavoro di un giornalista non si limita solo alla corretta timbratura di un cartellino o alla puntuale scrittura di un pezzo.