Nella seducente narrazione renziana della prima e dell’ultima ora, fra i temi e le figure mitologiche che ricorrono con maggior frequenza, quelli del coraggio e degli intrepidi giovani pieni d’ardore per il rinnovamento rivestono di sicuro un ruolo di primo piano. Il coraggio di cambiare, di fare scelte azzardate, di perseguire strade difficili, eccetera, eccetera, eccetera.
Ora, fin quando chi di quel racconto si faceva interprete da ruoli di minoranza, l’idea del coraggio aveva anche un suo perché: non è da tutti sfidare l’establishment con il vigore delle proprie parole e la forza della personale ambizione. Ma ora che questi stessi sono l’istituzione, non ha più molto senso quell’esposizione avventurosa e romanzata. Come ne ha ancora di meno quella di quanti a essa si conformano, adeguandosi semplicemente al volere di una maggioranza. Sinceramente, ogni qual volta che nelle interviste, sui social network, dai manifesti, m’imbatto nella parola “coraggio” in relazione al sostegno delle tesi della nuova élite al potere, mi viene da chiedere: coraggio per cosa? Per stare là dove stanno i più?
Eppure, questi conformisti coraggiosi determinano la scena pubblica e governano la sfera politica ergendosi a profeti di una nuova intrepidità, fatta di adesione incondizionata alle tesi dominanti, e arditamente si scagliano contro quelle minoranze che, ostinatamente, creano scandalo continuo con la loro indisponibilità all’allineamento. Uno cercherebbe il coraggio nello sfidare la corrente nella tensione dell’affermazione delle proprie idee, mentre qui lo si celebra nello sfilare delle correnti alla ricerca di eventuali postazioni a cui sacrificare valori e opinioni. Quel che più è triste, e lo dico senza acrimonia ma con la morte nel cuore, è osservare che questa professione di conformante adesione è più forte fra i più giovani.
Nell’epoca che stiamo vivendo, all’altare di un opportunismo scambiato per concretismo, sono quelli che han meno vissuto a immolare i propri ideali nel braciere allestito ai piedi delle posizioni di comando, nel quale bruciano i valori che ieri issavano sui loro stendardi ipotetici. Come se diventar grandi fosse rinnegare i discorsi che si facevano da giovani, nella pratica della costante trasformazione si spreca, impegnandosi, un’intera generazione.
Che sia dirigente o funzionaria, l’azione messa in campo dai chiamati a rappresentar più di sé stessi è tesa alla pedissequa ripetizione del verbo/volere del capo. E non è fedeltà a esso, intendiamoci; domani, questa sarebbe pronta lealtà verso un altro, come poco tempo fa lo era a chi diceva il contrario di quello che si fa oggi. È puntuale esecuzione, al massimo rilancio, dell’azione che al momento è dominante, del pensiero che si fa egemone nel monopolizzare le menti e le voci di quanti potrebbero opporvene uno diverso.
Ognuno muore solo, titolava Hans Fallada il suo racconto, in parte vero, sulla storia di chi, nel piccolo e con i pochi mezzi a disposizione, provò a cercare il personale senso dell’affermazione etiamsi omnes, ego non. Per non correre quel rischio, in tanti si conformano, acquietandosi, al volere dei molti. E il bello e l’ironico è che lo chiamano “coraggio”.