La certezza, l’unica certezza, e’ che si tratta di carneficine. Stragi che sommano orrori ad orrori. La certezza e’ che la paura cresce, che la voglia di uscire dal proprio paese, dalla propria citta’, prendere un mezzo di trasporto e viaggiare, partire per andare ad investire in un paese lontano, e’ sempre minore. Questo sta cambiando, questo e’ il terrore che Isis sta creando. Perche’ l’infedele da uccidere ormai, puo’ essere il turista arrivato a Tunisi con la prima crociera della sua vita come lo sciita raccolto nella preghiera del venerdi’ a Sana’a. L’infedele e’ chiunque non condivida appieno la visione di isis. Ma qual e’ questa visione? Una concezione religiosa? Una visione di politica espansionistica? Entrambe?
Ma chi ha questa visione? Possibile ci sia una lucidita’ di intenti in chi agisce in modo cosi’ brutale? E soprattutto, c’e’ veramente un unico disegno dietro l’attentato a Tunisi e a quello in Yemen, dietro le mogli schiave trucidate e gli sgozzamenti di massa di fronte ad una telecamera?
Le domande sono molte e le risposte pochissime. Gli Stati Uniti hanno detto di dubitare fortemente dell’autenticita’ della rivendicazione della strage a Sana’a da parte di Isis : è probabile che il Califfo voglia attribuirsi l’operazione solo a fini di propaganda, perché non esistono prove della presenza di una struttura radicata dell’Isis in Yemen.
Eppure la stessa Al Qaeda ha preso le distanze dal doppio attacco, mentre il califfato rilasciava un comunicato via twitter: «Se dio vuole, quest’operazione sarà solo una goccia di una prossima alluvione». Una rivendicazione questa si’, in pieno stile Isis, con rimandi a catastrofi da terrificante apocalisse. Non e’ detto pero’ che, come suggeriscono gli Usa, non sia solo un modo per attribuirsi la paternita’ di un’impresa compiuta da terroristi isolati.
Che il vento infuocato di Isis abbia investito un numero imprecisato di giovani frustrati, senza un substrato sociale che li abbia accolti e nel quale radicarsi, e’ fuori di ogni dubbio. Giovani di seconda generazione di emigrati ritornati rabbiosi e delusi nella loro terra d’origine o ragazzi rimasti nelle loro terre, paesi usciti dalle dittature con la primavera araba ma ora con governi fragili, in bilico, che non esprimono quella voglia di cambiamento epocale che queste generazioni si aspettavano.
L’arruolamento avviene sia nei ghetti delle metropoli europee, sia nelle periferie di citta’ arabe, gia’ periferie del mondo. Ma non sembra che il coordinamento sia totale. L’idea e’ che focolai di ribellione si accendano alla notizia delle imprese dei soldati di Isis, si animino in modo disordinato. L’impressione e’ che si possa trattare anche di singoli elementi, di sbandati, di disperati, di disturbati che si identificano con gli assassini e si trasformino in assassini loro stessi. Cosi’ come forse e’ accaduto “in Tunisia.
Il terrorismo jihadista nella Tunisia post Ben Ali, dicono gli analisti negli ultimi due anni, ha già provocato una sessantina di vittime in circa 15 attacchi, ma questo episodio segna un cambiamento nel modus operandi dei terroristi: da rappresentanti dello stato (chiamati hard target), spiegano gli esperti, si è passati ad uno dei tipici ”soft target” ovvero i turisti. E se finora gli attentati erano avvenuti in posti remoti e di frontiera, ora invece si è colpito nel centro della capitale. In tal senso, l’attacco potrebbe segnare la svolta “pro-Isis” del jihadismo tunisino.
E poi c’e’ lo Yemen, che confina con l’Arabia Saudita e si trova in una posizione strategica, sullo stretto a cavallo tra il Mar Rosso e il golfo di Aden… Un paese nel caos politico e religioso, spaccato in due tra il nord e la capitale sana’a controllata dagli sciiti Houthi e il sud in mano al presidente deposto Abd Rabbo Mansour Hadi. Era necessario inquadrare la situazione complessiva per un’ulteriore riflessione.
In questi paesi, come in altri dove Isis e’ molto attivo, ci sono equilibri fragili che spaventano i paesi limitrofi, dove si incrociano e si ingarbugliano interessi economici che vedono al centro il petrolio ma che anche si espandono in complessi tentativi di creare contrappesi che variano in continuazione e formano un tutt’uno difficile da sezionare e analizzare: a cominciare dagli stati uniti che si interrogano sull’opportunita’ di sostenere l’Iran, sciita, per arginare Isis, ma intanto mantengono rapporti con l’Arabia saudita, sunnita e sospettata di foraggiare prima Al Quaeda e ora Isis.
Insomma, come sempre accade, le guerre di religione non esistono ma la religione e’ solo l’alibi per muovere le masse disperate in nome di un qualche dio e raggiungere obiettivi molto piu’ materiali. Solo che stavolta l’impressione e’ che le mire dei potenti, dei burattinai internazionali hanno incontrato i bisogni di una massa di disperati che altro non aspettava se non identificarsi in qualcosa che convogliasse la sua rabbia e giustificasse gli orrori che da questa rabbia scaturivano.
Cosi’ abbiamo forse a che fare anche con gruppi senza un capo, delle cui azioni terroristiche si attribuisce la paternita’ Isis, a dimostrare la propria potenza. Una potenza che pero’, forse, non e’ realmente sua, in quanto non controllabile. Per questo, ormai, gli infedeli sono tutti, dai cristiani ai musulmani sciiti.
Il vero pericolo e’ che sembra un tremendo gioco sfuggito di mano, ma e’ utile interrogarsi sul perche’ e’ accaduto per capire come arginarlo.
Se la paura dell’occidente sono le cellule dormienti, allora sarebbe opportuno, mentre gli si da’ la caccia, cercare di disinnescarle fornendo a questi giovani opportunita’ e accoglienza, proprio cio’ che e’ mancato loro e che li ha gettati fra le braccia del terrorismo.
Ma questa paura che si e’ diffusa, questo sospettare di qualunque immigrato, questa enfasi sull’esistenza di cellule dormienti, non fa che aumentare il mito di Isis e caricare di energia ed entusiasmo e delirio di onnipotenza questi giovani immigrati o abitanti delle periferie degradate dei paesi arabi, che cosi’, ora si’, sentono di appartenere a qualcosa. Questo forse e’ un pericolo ancora piu’ grande, un fantasma che prende vita grazie alla paura. Questo fa tornare in mente quanto accadde nel nostro paese negli anni di piombo. Non voglio certo paragonare le brigate rosse a Isis, per carita’. Paragono pero’ la paura che crea il mito.
Si parlava anche allora di cellule dormienti, si immaginava un esercito pronto a scendere in piazza con le armi. E mentre il terrorismo nero piazzava bombe, si attribuiva alle brigate rosse un potere organizzativo e una lucidita’ di vedute, dei piani perfetti e terribili che nella realta’ non c’erano. Un parallelismo molto azzardato, mi rendo conto, ma in comune queste due situazioni hanno senz’altro un fatto: la manipolazione di ideali da parte di chi conduce il gioco, il bisogno di appartenenza da parte di chi si offre per essere manipolato e la paura.
La cultura del sospetto che fa essa stessa parte del gioco di chi vuole arrivare ad uno scontro sociale per propri interessi, sempre economici, sempre egemonici. E l’interesse piu’ grande, in questi frangenti, e’ tenere la gente bloccata dal terrore. Come allora, negli anni di piombo. Quando era difficile prendere un treno senza timore degli attentati del terrorismo nero, o quando si guardava con sospetto un vicino di casa discreto e riservato che, chissa’, poteva essere un brigatista.
Combattere il terrore e il sospetto, continuare ad uscire, a viaggiare, a scambiare merci e cultura tra paesi, a convivere serenamente con gli immigrati nei paesi occidentali mettendo da parte la logica del sospetto. E’ una scommessa enorme, ma l’unica lotta, l’unica battaglia possibile per disinnescare questa bomba piazzata con lucida consapevolezza sul treno che avanza verso la civilta’ e la convivenza civile.