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Bab al Mandeb, sogno neo-imperiale

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La questione yemenita spiega quelle siriana e irachena. Sarà un altro orrore, ma molti devono tirare il fiato , anche quelli che non amano i wahhabiti.
L’attenzione di tutti è concentrata sul negoziato tra il gruppo 5+1 e l’Iran sul nucleare, ma forse quel che è accaduto in Yemen richiedeva maggiore attenzione. Dopo mesi vissuti al galoppo infatti, l’Iran ha subito il ritorno saudita. L’azione delle milizie di Ansar Allah, alleate di Teheran nello Yemen, stavano per portare tutti i transiti nel Mar Rosso sotto il controllo iraniano. Era, o è, questa la posta in palio a Sanaa ed in particolare sul promontorio di Bab al Mandeb, quella porta yemenita sul Mar Rosso dalla quale si chiacchiera con chi passeggia a Gibuti.

Questa minaccia esiziale per troppi, compresi gli Usa, ha consentito al nuovo e già malato re saudita di rimettere in fila i “sunniti”, cioè tutti i paesi che rischiavano l’osso del collo se il colpo iraniano fosse andato a buon fine: Egitto, Turchia e Qatar, da anni coinvolti in feroci dispute, hanno detto sì al re. Di estrema importanza poi il sì del Pakistan, che pone l’Iran in una tenaglia nemica molto simile a quella in cui Teheran aveva tentato di stringere Riyadh con la sua manovra tesa a controllare a nord Iraq, Siria e Libano, arrivando fino al Mediterraneo, e a sud lo Yemen, arrivando fino al Mar Rosso.

Forse così si riesce a capire l’enormità della partita che Teheran ha tentato di giocare, prendendo il controllo di tutti gli sbocchi a mare, da Hormuz a Beirut, passando per Sanaa, Baghdad e Damasco.

Questo progetto tanto imperiale quanto epocale è partito nel 2003, come azione uguale e contraria a quella tentata dai neocon. Il suo prezzo di sangue più sconvolgente gli arabi lo hanno pagato in Siria, dove l’operazione “impero” richiedeva a tutti i costi di mantenere in sella Assad. A gestire il piano è stato chiamato il generale dei pasdaran Soleimani, che potremmo ribattezzare “l’onnipresente”.

E’ lui che ha gestito, con l’amico Hezbollah, la battaglia siriana, è lui che ha tentato la conquista di Tikrit, fallita proprio pochi giorni prima del colpo di coda saudita in Yemen; e nei giorni scorsi sarebbe stato visto nello Yemen, a organizzare la reazione Houti.

Si capisce così per quale motivo alcuni nel mondo arabo, pur non avendo alcuna simpatia per i sauditi e il loro tenebroso islam wahhabita, tirino il fiato: l’operazione era “imperiale”, un’operazione “persiana”, contro gli “arabi”. La carne da macello con cui gestirla ovviamente è stata quella degli “arabi sciiti”, l’avamposto persiano usato grazie all’istillato terrore che la guerra imperiale non fosse tale, ma una guerra dei sunniti contro gli sciiti, da sempre vessati e quindi “sensibili”.

E’ questo il motivo per cui il progetto “imperiale” ha visto di buon occhio il formarsi di un radicalismo fanatico ed estremo sunnita, quello dell’ISIS. Favorito in tutti i modi, solo questo fanatismo avrebbe convinto gli arabi sciiti che il loro futuro era in pericolo, e avrebbe convinto il mondo a chiudere gli occhi davanti al male estremo (che i petromonarchi hanno condiviso per i loro calcoli).

Ora i sauditi sembrano usciti dall’angolo, molti nel mondo arabo tirano il fiato, ma non possono certo gioire. Guardando al passato si può capire perché.

Non era certo questo l’obiettivo delle Primavere, sulle quali nessuno ha voluto investire, proprio come capitò al “processo di pace”.

Per lo Yemen e gli yemeniti sarà un altro calvario, devastante. E l’aver lasciato tanto campo al gioco osceno degli opposti jihadismi avrà ancora prezzi enormi, per i popoli.


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