[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Aaron Edwards pubblicato su openDemocracy.
Dopo le dimissioni del Primo Ministro e del Presidente Hadi [il 22 gennaio scorso, NdT], il processo di transizione politica in corso, mirato a una maggiore stabilità del Paese, sembra fallire. L’alternativa è tuttavia qualcosa di inimmaginabile.
Le violenze recenti nello Yemen segnano un ritorno delle linee di faglia tribali che in passato venivano gestite attraverso gruppi di interesse in contrapposizione tra di loro o, più recentemente, con una ridistribuzione del potere politico a livello federale mediante la Conferenza sul Dialogo Nazionale (CDN).
La CDN aveva avviato una transizione politica, mostrando ambizione con la riforma del settore della sicurezza e una più intensa strategia anti-terrorismo per contrastare Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Ora, secondo l’International Crisis Group (ICG), che controlla i progressi del Paese, l’unica vera scelta aperta agli Yemeniti è l’alternativa tra il processo inclusivo definito nell’accordo ottenuto alla CDN nel gennaio 2014 o … il rischio di una guerra civile secondo l’esempio della Libia.
Il World Development Report: Conflict, Security and Development pubblicato dalla Banca Mondiale, mostra come i Paesi che in passato hanno vissuto conflitti abbiano più probabilità di subire ulteriori violenze: il 90% dei confitti armati di oggi ha avuto un antecedente di qualche tipo, rapporto che è raddoppiato rispetto agli anni Sessanta. E lo Yemen ha attraversato diversi conflitti nel corso degli ultimi cinquant’anni.
Tra il 1962 e il 1970, lo Yemen del Nord fu preso nella morsa di una sanguinosa guerra civile tra le forze repubblicane [ispirate a Nasser, NdT] che il 25 settembre 1962 avevano deposto l’imam regnante [sciita, NdT]. Nel frattempo, la conflagrazione si diffuse nel Sud, che tra il 1963 e il 1967 assistette a una rivolta conclusasi con il ritiro delle autorità coloniali britanniche e l’istituzione di un governo di orientamento marxista.
A metà degli anni Ottanta lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud furono nuovamente coinvolti in una breve guerra civile – un conflitto che scoppiò di nuovo nel 1994, quattro anni dopo l’unificazione del Paese. All’epoca infatti, la tenuta del governo di Saleh, che aveva governato il Nord dal 1978, dipese dall’appoggio del Generale Abdrabuh Mansour Hadi nella regione meridionale, il quale avrebbe poi prestato servizio come vicepresidente di Ali Abdullah Saleh fino alla sua nomina a presidente grazie all’accordo di transizione elaborato nel novembre 2011 dal Consiglio di Cooperazione del Golfo.
La stirpe
Le violenze provocate nel nord del Paese dal movimento ribelle degli Houthi può essere fatto risalire al 2004 con l’assassinio del loro leader tribale Hussein Badreddin al-Houthi da parte del governo di Sanaa; hanno tuttavia radici più profonde, che possono essere ricondotte alla stirpe degli Zaidi [variante dello sciismo, NdT] che per oltre due secoli hanno generato gli imam yemeniti. Dopo l’attacco sferrato alla capitale lo scorso 25 settembre non c’è più dubbio che gli Houthi ritengano di essere i discendenti diretti degli imam e, perciò, di avere il diritto a una distribuzione di potere più ampia. Gli Houthi provengono dalle montagne dove mezzo secolo prima, durante la guerra civile, furono mandati in esilio.
Sempre secondo l’ICG, la violenza ha il potenziale per diffondersi ampiamente e minacciare la stabilità di tutto il Paese, dato che gli Houthi devono regolare i loro conti con Al-Qaeda nella Penisola Arabica. Quest’ultima ha cercato di trarre vantaggio dal malcontento di alcuni membri di tribù sunnite, i quali sono intimoriti dalla violenza verbale settaria che caratterizza gran parte del linguaggio impiegato dagli Houthi.
Nello Yemen l’instabilità è endemica perché lo Stato venne formato sulla base di un compromesso tra i vari gruppi di interesse in contrasto tra loro. Le affiliazioni tribali, che risalgono all’epoca pre-islamica, hanno sempre esercitato una forte influenza sulla politica e sulla società. Molto tempo dopo il crollo del marxismo, del populismo e dell’islamismo, il tribalismo continuerà a dominare la vita delle persone dalla regione montuosa di Radfan al centro urbano di Taiz fino alla città portuale di Hodeidah. Inoltre lo Yemen, come “porta d’accesso per l’Arabia”, continua ad avere una notevole importanza strategica per le potenze regionali dell’Arabia Saudita e dell’Iran, così come per gli Stati Uniti e per la Russia.
Mentre l’attenzione si focalizza sulla ribellione degli Houthi nel nord del Paese, al sud si assiste a un nuovo movimento secessionista che continua a mobilitare centinaia di migliaia di persone. Nelle manifestazioni di massa sulle strade di Aden, la capitale del sud, molte persone sono tornate a sventolare le vecchie bandiere della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen. Il piano della CDN di suddividere il Paese in zone federali e conferire il potere a quattro unità regionali nel nord (Azal,Saba, Janad e Tehama) e due al sud (Aden e Hadhramaut), ha fallito nel tentativo di placare i vari gruppi di interesse yemeniti.
Un antico proverbio dello Yemen dice che “un cammello è in realtà un cavallo disegnato da una commissione”. L’incapacità di rendere effettivo l’accordo della CDN mostra in effetti le grosse difficoltà riscontrate dai leader politici yemeniti che hanno cercato di attuarlo. Questo può tuttavia solo aprire la strada a un grave deterioramento della situazione, che l’ICG considera andare a vantaggio esclusivo dei qaedisti di AQAP.
Le dimissioni
Probabilmente, la minaccia più grande alla stabilità dello Yemen non è la violenza dei ribelli Houthi nel nord e nemmeno l’attività di AQAP nel sud, ma la prospettiva di una nuova divisione del Paese lungo i confini precedenti all’unificazione del 1990. Le dimissioni del Primo Ministro e del Presidente, Mansour Hadi – dopo un attacco al palazzo presidenziale di Sanaa organizzato dagli Houthi -, rivela il precario equilibrio dei rapporti di forze nel Paese.
Saleh è stato l’unico attore politico ad aver avuto successo nella gestione di queste relazioni. Ma recentemente le Nazioni Unite hanno rivolto all’ex presidente l’accusa di aver fomentato violenza e instabilità, nonché di aver compromesso Mansour Hadi, il suo ex vice presidente. Saleh ha risposto all’accusa con vigore, assicurando l’espulsione di Mansour Hadi dal partito del Congresso Generale del Popolo e isolandolo di fatto dal processo politico.
Victoria Clark, nel suo bellissimo libro Dancing on the Heads of Snakes, osserva in maniera intelligente che, se le minacce provenienti dallo Yemen richiedono senz’altro l’azione dell’Occidente, “sarebbe opportuno coltivare la sana idea che non conosciamo ancora nemmeno la metà di quest’angolo della Penisola Arabica bello e incantevole ma anche oscuro e instabile”. Sarebbe quindi auspicabile per la comunità internazionale continuare a sostenere la transizione pacifica in Yemen a patto che questo risponda solo alle richieste degli stessi Yemeniti. Il destino della “porta d’accesso per l’Arabia” è in bilico – e dipenderà dal continuo impegno e sostegno, astenendosi da un intervento militare.