Sul festival di Sanremo si è detto e scritto tanto. Nella speranza di non irritare un vero e rigoroso esperto della materia, il carissimo compianto Gianni Borgna tristemente scomparso proprio un anno fa, è utile cimentarsi ancora sull’argomento. Non sulla critica musicale, ovviamente, quanto piuttosto per cercare di capire cos’è davvero diventato l’evento principe della canzone italiana, arrivato alla ragguardevole puntata numero sessantacinque. Si sono letti commenti, anche autorevoli, accomunati da una considerazione di sottofondo: Sanremo è la vittoria delle persone comuni, della medietà, un ritorno all’indietro verso i lidi antichi e rassicuranti della (democristiana) massificazione della società dello spettacolo. La scansione del tempo collettivo.
Sarà. Comunque, sarebbe una controriforma di successo, visto il successo di audience – quasi 11 milioni la media – e di share – oltre il 48%, la percentuale maggiore degli ultimi dieci anni – con picchi del 53% tanto nella fascia di età 15-24 quanto in quella over 65. E qui sta, se mai, uno dei particolari interessanti da indagare. Infatti, proprio il forte interesse delle generazioni più giovani dovrebbe indurre a riflettere meglio sulla natura meramente retrò del festival, deponendo la scimitarra dei luoghi comuni sui luoghi comuni. Per così dire. Cosa sia conservatore e cosa invece progressista in tali territori è vicenda ben diversa dalle logiche e dai linguaggi tipici di altri lidi. Nella cultura di massa decidono i protagonisti del consumo e se i nativi digitali accettano Sanremo è anche per la contiguità tra la navigazione sui social e la fruizione dei “talent”.
Proprio dai numerosi programmi di gara e gioco tra giovani promesse vengono i vincitori dell’ultima edizione, come già è successo in varie edizioni precedenti. Quindi, è bene cogliere l’intreccio tra i momenti di pura nostalgia del passato e quelli –al contrario- di rappresentazione della “modernità” contemporanea. Vale a dire, i sintomi di un percorso attualissimo, il riflesso della pentola affannata dell’identità italiana. Dunque, c’è materia per capire qualche novità e non solo per confermare sensazioni prevedibili. Lasciamo stare, poi, il paragone tra Carlo Conti e la citatissima fenomenologia di Mike Bongiorno: non c’entrano niente, essendo l’uno un medium “freddo” e l’altro decisamente “caldo”.
E poi, Sanremo ci racconta qualcosa sulla stagione che vive la televisione. Ci interpella sulla forza tutt’altro che esaurita dello schermo generalista. Controcorrente, rispetto ai mille convegni che hanno decretato il de profundis del video per tutti. Le previsioni insistite sulla parabola calante della vecchia Regina in favore delle offerte colte e specialistiche, personalizzate e tecnologicamente integrate meritano un po’ di prudenza. La crisi culturale, l’effetto dell’omologazione e dei pensieri unici si fa sentire. La televisione leggera ci rimanda ai pensieri leggerissimi di quest’epoca. Insomma, Sanremo è un caso di realismo e di svelamento di talune verità nascoste dal “politicamente corretto”. Al resto sono concessi banalità e grigiore, al festival no? Bene si fece, qualche anno or sono, a inserire la manifestazione canora tra i programmi da trasmettere obbligatoriamente in chiaro e senza criptaggio. In fondo, eccoci di fronte ad un caso emblematico del rapporto tra i poteri dominanti e i “tele-corpi”. “Il pane e il circo”, così si intitolava il felice volume di Paul Veyne. La televisione di massa ci parla dell’egemonia. Quella di oggi, non di ieri.
* da “Il Manifesto” – mercoledì 18 febbraio