Dietro le scelte tremende che hanno causato le stragi di gennaio c’è, anche, una questione sociale. Elusa o ignorata, è rimasta spesso in secondo piano nelle molte analisi che sono state proposte degli attentati realizzati dai fratelli Kouachi e da Amedy Choulibaly.
«E invece è un nodo centrale di tutta la faccenda», mi dice, quasi con rabbia, una mia compagna dell’università, di origini algerine. «Mia cugina – continua – insegna in una scuola media di Saint Denis. Quasi tutti i ragazzi si sono rifiutati di rispettare il minuto di silenzio per le vittime degli attentati».
Saint Denis è una città di oltre centomila abitanti situata a nord di Parigi. Ma in realtà, più che una città autonoma, ormai sembra una sorta di immenso quartiere fagocitato dalla metropoli. La prima volta che ci sono andato era novembre. Sono arrivato con la bici fino a Porte de Clignancourt, a nord di Montmartre, poi ho proseguito a piedi.
All’imbocco di Boulevard Ornano, ciò che innanzitutto mi ha colpito, in mezzo a un traffico asfissiante, è stato un piazzale che aveva su un lato dei sacchi di immondizia accatastati, e sull’altro, in una lunga fila disordinata, decine di auto usate, ognuna con un foglio, attaccato al finestrino o al parabrezza, su cui c’era scritto, a mano, il numero dei chilometri percorsi e il prezzo di vendita. Poco oltre, proseguendo sulla stessa strada che conduceva al di là di Porte de Clignancourt, e dunque fuori dai confini di quello che viene considerato il centro di Parigi, il marciapiede si riempiva di tendoni e saracinesche. In successione, decine di piccoli negozi, cubi anonimi di uguali dimensioni, divisi l’uno dall’altro da semplici tramezzi o da separé metallici, esponevano tutti la stessa merce. Le stesse venti paia di scarpe sugli scaffali, gli stessi abiti contraffatti appesi alle stampelle o a manichini traballanti appoggiati contro gli alberi. Quasi tutte le bancarelle erano gestite da uomini di chiara origine nordafricana, tra i venti e i quarant’anni, seduti con indolenza su delle sedie di plastica all’interno dei loro cubi; e quasi tutte avevano delle casse piuttosto potenti che sputavano musiche diverse, ma ugualmente tamarre, sicché nel giro di cento metri l’unica costante che dava continuità a quell’accozzaglia di suoni era il pompare invariabile dei bassi.
Dopo aver risalito Boulevard Ney fino a Porte de la Chapelle, mi diressi a nord, puntando verso Saint Denis. Per arrivarci, però, bisognava percorrere un lungo rettilineo, che per oltre un chilometro proponeva, pressoché identico, lo stesso teorema urbanistico: strade a senso unico, a scorrimento veloce, divise al centro da aiuole e giardinetti decisamente malandati, e a destra e sinistra serie infinite di palazzoni. Erano i giorni in cui esplodevano gli scontri a Tor Sapienza, e più camminavo lungo i marciapiedi sconnessi, lasciandomi alle spalle incroci e isolati squallidamente anonimi, e più continuavo a ripetermi che anche questi caseggiati alla periferia nord di Parigi erano uno scenario per molti aspetti perfettamente sovrapponibile a quello di certe borgate romane finalmente scoperte dalle telecamere dei telegiornali italiani.
Lo splendore di Parigi era poche centinaia di metri dietro di me, eppure lo scenario, lì, era completamente diverso.
Le scale di rimonta, mi ha spiegato un mio amico pescatore, sono dei sistemi idraulici che, attraverso piccole vasche costruite l’una di seguito all’altra, rallentano la velocità dei fiumi e permettono alle anguille di risalirne il corso, superando un dislivello altrimenti proibitivo. Ma se si alzassero delle paratoie per isolare una vasca, magari proprio l’ultima vasca della scala, ecco che le anguille resterebbero intrappolate, a pochi centimetri dalla loro meta, costrette a dimenarsi in una pozza d’acqua sempre più sporca, sempre più nauseante. Non so se qualche sadico abbia mai pensato di costruire queste paratoie: però alcune periferie di grandi metropoli, di Parigi come di Londra o Milano, a me fanno pensare a quelle vasche trasformate in prigioni.
Mentre avanzavo verso Saint Denis, sempre più i volti delle persone che incrociavo erano i volti di persone di colore, di donne velate e uomini con la shashia sul capo. Anche i negozi, ovviamente, cambiavano. I bistrot e i bar con le sedie e i tavolinetti ordinatamente disposti lungo il marciapiede lasciavano il posto a kebabbari e a traiteur africani o orientali.
Oltrepassato lo Stade de France, Saint Denis mi si presentò poco dopo, con un grande incrocio e un cantiere stradale. A pochi passi dalla cattedrale (meravigliosa), al centro della città, una lunga via, Rue Gabriel Péri, mi apparve come quello che doveva essere il corso della città. Lunghe file di vetrine e boutique, con abiti di qualità infima e di pessimo gusto. Rimasi impressionato dal numero incredibile di centri per la manicure, tutti pienissimi, e di negozi di bigiotteria scadente. A gestire queste attività, quasi nessun francese bianco, eccezion fatta per qualche boulangerie; senza lanciarmi in calcoli troppo complicati, penso di poter dire che l’80% del PIL delle poche vie che ho percorso era prodotto da persone maghrebine. E tutto si vendeva a prezzi che, per chiunque fosse minimamente abituato a vivere nel centro di Parigi, risultavano impossibili da credere reali.
Le strade erano piuttosto lerce, e perlopiù invase da odori intensi, alcuni sconosciuti e deliziosi, altri sciaguratamente fin troppo noti, e fastidiosissimi. Ma nell’aria c’era anche un’aggressività palpabile: la percepivo nelle facce e nelle camminate dondolanti dei giovani rapper di colore che avanzavano in piccole pattuglie, nelle urla che uscivano dalle porte semichiuse di alcuni locali, nelle pose volgari e pietose delle adolescenti coi pantaloni attillati e le borsette di strass. Quasi senza accorgermene, mi ritrovai a calpestare dei frammenti di vetro: sentii lo scricchiolio sotto la suola delle mie scarpe e mi guardai intorno. Proprio accanto a me, un’auto col finestrino sfondato, mostrava i segni di un furto avvenuto da pochi minuti: lo stereo era stato estratto a forza, forse con un cacciavite, e alcuni fili elettrici strappati spuntavano dal cruscotto come serpi contorte.
Dopo aver girovagato per un tempo imprecisato lungo le vie del centro, mi ritrovai ad attraversare un ponte sul Canale Saint Denis, a pochi metri dal punto in cui si ricongiunge con la Senna. A metà del ponte, fissata contro la ringhiera, una targa ricordava il massacro del 17 ottobre 1961, quando gli algerini dell’FLN decisero di manifestare per le strade di Parigi a tarda sera, violando il coprifuoco imposto dal governo ai soli nordafricani, e vennero uccisi a decine dalla polizia francese. Al di là del ponte, in un piazzale dissestato, gruppi di ragazzi maghrebini vendevano caldarroste e pannocchie. E carne cotta alla brace, grazie a dei barbecue assai fantasiosi. Alcuni carrelli della spesa venivano adoperati come bracieri: su una graticola, fissata ai due lati di ogni carrello, venivano adagiati pezzi di carne estratti da una busta di plastica poggiata a terra.
Un paio di mesi dopo, quando la mia amica algerina mi dirà che nelle scuole di Saint Denis in pochissimi hanno rispettato il minuto di silenzio per gli attentati dei fratelli Kouachi e di Amedy Coulibaly, non rimarrò affatto stupito.
“A ME QUEST’IDEA CHE BISOGNA METTERE DEI LIMITI ALLA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE MI DÀ DAVVERO SUI NERVI. O ESISTE, QUESTA LIBERTÀ, OPPURE NO”. REPORTAGE SU PARIGI E GLI ATTENTATI (3A PARTE) – di Valerio Valentini
IL GIORNO DOPO NESSUNO HA IN MANO UN GIORNALE. REPORTAGE SU PARIGI E GLI ATTENTATI (2A PARTE)
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