Alberto Vannucci
Ci voleva un altro “cattolico democratico” al Quirinale perché in un discorso d’insediamento il tema della questione morale venisse evocato nell’aula di Montecitorio. Bisogna tornare al 28 maggio 1992, pochi giorni dopo che si era consumato il dramma dell’attentatuni mafioso al giudice Falcone, per sentire il “galantuomo” Scalfaro che ammonisce i parlamentari: “L’abuso di denaro pubblico è un fatto gravissimo, che froda e deruba il cittadino contribuente ed infrange duramente la fiducia dei cittadini: nessun male maggiore, nessun maggior pericolo, per la democrazia, che l’intreccio torbido tra politica e affari”. Parole profetiche, pronunciate di fronte a una classe politica plaudente ma già terrorizzata per le inchieste di Mani pulite, che lì a poco l’avrebbero falcidiata portando in breve alla liquefazione dei vecchi partiti di massa.
Ma il neo-Presidente Sergio Mattarella ha battuto ogni record: per quasi un decimo del suo discorso – convenevoli esclusi – si è concentrato proprio sul tema della lotta alla corruzione e alle mafie. Una battaglia da lui definita “priorità assoluta”, visto che “la corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile. Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini. Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato. Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci”. Ed è solo unendo “l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine” con “una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere” che si potranno sconfiggere le mafie, che della corruzione sono nel contempo portatrici e beneficiarie, in una simbiosi perversa.
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