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Caso Alpi-Hrovatin. Depistaggi e verità inconfessabili

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Il duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non ha più nemmeno uno straccio di colpevole. E nemmeno un brandello di movente, l’ombra di un mandante. Niente.  In carcere c’è un innocente. Un capro espiatorio.
E c’è voluto “Chi l’ha visto” per far confessare un falso testimone (Ahmed Ali Rage detto “Gelle”) che nessuno ha mai trovato nonostante il fatto che le autorità italiane sapessero il suo indirizzo di Birmingham. Un fatto di gravità inaudita. Depistaggi e omissioni.

Già, perché questo è il vero significato dello scoop realizzato da “Chi l’ha Visto” (Rai 3). L’inviata della trasmissione ha convinto il testimone-chiave, che ha fatto condannare a 26 anni carcere di Hashi Omar Hassan detto Faudo, a confessare di aver mentito, accusando un innocente in cambio di denaro e di poter lasciare (lui e la famiglia) la Somalia in guerra civile. Perché? Lo dice lo stesso testimone, Gelle: per accontentare misteriose autorità italiane desiderose di avere un capro espiatorio con cui chiudere il caso.

Le rivelazioni del somalo vanno ben al di là della tragedia di un giovane ventenne che da 18 anni sta in carcere senza colpa. E non solo perché riferito al duplice omicidio di Mogadiscio.

Che sia giunto il momento di mettere in discussione le affermazioni di evidenti bugiardi secondo i quali i due giornalisti sono morti “per caso”? Che sia giunto il momento in cui chi ha investigato sul caso non sia più bollato come dietrologo e complottista perché attribuiva alle indagini di Ilaria e Miran sui traffici di armi e rifiuti la ragione del loro omicidio?

DELITTO POLITICO E INTRIGO INTERNAZIONALE

Difficile. Negli ultimi 20 anni ne abbiamo viste e sentite troppe. «Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, in Somalia, erano in vacanza», disse Carlo Taormina al termine dei lavori di una inutile e costosissima Commissione parlamentare di inchiesta. «Non c’è nulla da scoprire», gridarono altri – anche giornalisti colleghi e amici di Ilaria – sostenendo che «se ci fosse stato un movente del genere lo avremmo scoperto noi». Che diranno ora lor signori?

Che diranno ora che è clamorosamente chiaro a tutti che la ricerca della verità sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (sono passati più di 20 anni) è stata depistata con la stessa intensità e determinazione con cui sono state deviate le indagini su eventi tragici della storia del nostro Paese come la Strage alla stazione di Bologna o quella di Ustica? Che diranno mai per poter sostenere ancora, contro ogni evidenza, che dietro la morte di quei giornalisti del Tg3 non c’erano traffici di armi e di rifiuti? E come faranno, ci chiediamo, a parlare ancora di un complotto di giudici, inquirenti e giornalisti impegnati a “inventare” un caso che non esiste?

Questo depistaggio è la prova che dietro l’omicidio di Ilaria e Miran c’è ben di più di  qualche disinvolta operazione di traffico illecito. Non si trovano risorse, energie e complicità di questo livello, diremmo di questa “raffinatezza”, per coprire magliari e trafficanti di piccolo o anche di grosso calibro. E allora? Va da se che c’è di più. C’è più di quanto, anche fantasticando si possa immaginare. Quello dei due inviati Rai a Mogadiscio è stato un delitto politico ed è, come accade purtroppo in questi casi, un intrigo internazionale.

LE ROTTE DEGLI ARMIVENDOLI. PER LA SOMALIA E NON SOLO

Qualcuno ha compiuto atti inconfessabili, si è assunto responsabilità politiche che vanno oltre i mandati parlamentari e legali che hanno spinto migliaia di soldati, di molte nazioni, nell’inferno somalo con lo scopo dichiarato di portare pace e soccorso a quelle popolazioni.

Traffici sistematici, legati a piccole navi che non facevano quello che avrebbero dovuto.Non basta pensare, a questo punto, a eventi legati al “tener vivo” il conflitto somalo. Non basta pensare a conti da piccola bottega del malaffare. La guerra somala – purtroppo per la Somalia e per gli sfortunati giornalisti uccisi a Mogadiscio – ha creato una terra di nessuno, un Paese di bengodi per ogni nefandezza, un passepartout per operazioni coperte di ogni tipo legate anche ad altre guerre apparentemente lontane e sicuramente contemporanee, come quelle  della ex Jugoslavia.

Lo hanno documentato le Nazioni Unite: le rotte degli armivendoli che “servivano” i signori della guerra somali sostentavano anche i comunisti serbi, i musulmani bosniaci, i fascisti croati, i nazionalisti cetnici… Gente che combatteva spalleggiata da padrini annidati nelle democrazie avanzate, gente che ha sempre, e per forza, dovuto negare ogni legame, stando ben attenta a non lasciare impronte digitali su armi e denari che andavano dove non avrebbero dovuto.

C’è il peggio in tutta questa storia, con ramificazioni che partono e arrivano non lontano dal nostro Paese. Che, a quanto pare, non può permettersi certe verità, mentre altrove già si scrivono libri di storia. Di che parliamo? Di verità che non troveremo nemmeno nei molti documenti dei servizi segreti recentemente desecretati dal nostro governo. Troveremo solo qualche traccia, tutt’al più. Come nel frontespizio (il documento intero è ancora sotto omissis) da cui si apprende dell’esistenza di un rapporto segreto del Colonnello Vezzalini (servizi di informazione di Unosom) che indica un mandante americano per l’aggressione a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

O la relazione di servizio del Capitano dei Carabinieri Orsini (l’ultimo carabiniere rimasto in Somalia dopo la partenza del nostro Contingente) che apprese dagli uomini dei nostri servizi segreti e da ambienti della Delegazione speciale Diplomatica italiana a Mogadiscio che il mandante sarebbe stato un uomo della Cia. Briciole di fatti che non appaiono nelle carte dei “servizi”.

LA “VACANZA” DI ILARIA E MIRAN

Le indagini svolte dalla Digos di Udine negli anni immediatamente successivi al delitto indicarono, sulla base di notizie provenienti da fonti di Mogadiscio, due nomi somali, uno dei quali cittadino americano (Ibrahim Hassan Addow), ufficialmente mai rientrato in Somalia prima del 1998, ma impiegato per anni come reclutatore di Mujadin per conto della Cia in Afganistan e nello Yemen (dove aveva sede la flotta di navi italo-somale su cui indagava Ilaria): miliziani islamici da impiegare nella guerra in Bosnia.

La Digos di Udine aveva individuato costui e molti altri fatti importanti, per ricostruire la verità sul caso Alpi-Hrovatin: quattro testimoni oculari, il “sistema” di traffico d’armi che sovvenzionava i clan in conflitto nel Paese africano, alcuni degli uomini che lo gestivano, gli eventi che portarono alle decisione di eliminare i due giornalisti italiani. E dato che di cose ne stavano scoprendo tante, fu tolta loro la delega d’indagine. Era il 1997, poco prima che fosse assoldato Gelle, il testimone fasullo.

Eppure, per vent’anni c’è chi ha continuato ostinatamente a dire che sull’omicidio di Mogadiscio “non c’è nulla da scoprire”. Già, Ilaria e Miran, a Bosaso, erano andati a fare una vacanza. E anche il testimone scovato da Chi l’ha visto, in fondo, non ha fatto altro che mandare Hashi Omar Hassan a fare una vacanza. Nelle carceri italiane.

Fonte: “Famiglia Cristiana”


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