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“Un’eterna meraviglia” di Pearl S. Buck. Una moderna favola per adulti

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Pochi ricordano oggi Pearl Buck che pure fu Premio Pulitzer nel 1931 con “La buona terra” (The Good Earth) e Premio Nobel per la letteratura l’anno successivo. La signora torna ora sulla scena letteraria con un libro completamente inatteso, “Un’eterna meraviglia”,  trafugato alla sua morte (1973) da una segretaria fellona, ritrovato dal figlio adottivo Edgar in un deposito di Fort Worth (Texas) e ora edito da Mondadori (pagg.257, 18 euro). Un’esca allettante, dal momento che negli Anni Trenta e Quaranta e per gran parte del dopoguerra il suo romanzo di culto sulle vicende della figlia di un pastore presbiteriano finita nella lontana Cina, geograficamente e culturalmente così remota da sembrare confinata in un’altra galassia, era stato salutato alle stregua di un capolavoro e insignito perfino della medaglia di riconoscimento dall’American Academy of Arts and Letters. Rappresentava infatti per la sensibilità dell’epoca uno strumento letterario efficace e appassionante per rimuovere ogni barriera tra popoli e nazioni, conclamando l’indispensabile radicamento di qualsiasi essere umano alla propria terra, fonte di ogni identità e nutrimento. Ne era stato tratto anche un film di Sidney Franklin, vincitore nel 1937 di due Premi Oscar, che presenta una curiosità: la protagonista Luise Rainer era un’attrice molto ammirata da Fellini che vagheggiò persino di reclutarla nel cast stellare di “La dolce vita”. Ora questo nuovo romanzo, spregiudicato per i suoi tempi e persino audace nella descrizione dei rapporti sessuali, arriva tra noi come un UFO difficile da collocare. Scritto dalla Buck a ottanta anni con accattivante scorrevolezza, induce a passare di pagina in pagina senza resistenze; ed è anche dotato di una innegabile profondità di indagine psicologica. Ma l’ordito e i personaggi si accordano al gusto facile di una soap opera illustrata dalla matita di Norman Rockwell; una favola sentimentale per adulti in perfetta sintonia con l’America del New Deal di Franklin Delano Roosevelt resuscitata dalla grande depressione del ’29.

Il protagonista ci viene presentato fin dalla nascita, anzi da quando è ancora nel grembo materno, e apprendiamo da lui una molteplicità di nozioni sul misterioso mondo placentario. Un punto di vista decisamente originale: dal buio alla luce, dall’alveo protetto alla sensorialità, dalla scoperta dell’ambiente esterno  alla formazione dei primi concetti.  Randolph  Pierce, detto Rannie, già dai primi passi rivela le caratteristiche di un essere precoce, anzi cerebralmente iperdotato, impressionando nel corso dello sviluppo prima i suoi genitori, poi gli insegnanti.  Brucia ogni tappa nell’apprendimento al punto che a tredici anni è già maturo per il college. Ma come tutti i ‘diversi’ è molto appartato, destinato anzi a un’incolmabile solitudine. Il padre adorato e suo dolce complice muore presto; con la madre il rapporto è intenso ma meno esaltante. L’incontro con un docente di charme, Donald Sharpe, sembrerebbe la chiave di volta per l’ingresso in un mondo di superiore raffinatezza, se non si rivelasse presto per una fatale passione gay alla quale il giovinetto si sottrae con forti turbamenti. Rifugge, scappa via, con la benedizione materna si mette in viaggio per il vasto mondo in cerca di se stesso. In Inghilterra sarà una giovane seducente signora, Lady Mary, ad accalappiarlo per le proprie voglie; nonostante l’età il ragazzo è già ben sviluppato, molto alto, elegante nella persona.

La sfrenata passione sessuale si consuma in un pugno di mesi; e quando si esaurisce Rannie passa in Francia. A Parigi si invaghisce di Stephanie, splendida figlia di un’americana e di un antiquario cinese, il signor Kung, capace di armonizzare nel sembiante l’attraente fusione delle due razze. Eppure l’ossessione per la mancanza di una vera identità le impedisce di abbandonarsi a un progetto matrimoniale; come vorrebbe il vecchio padre che vede in Rannie il genero ideale da sempre atteso. Il giovane torna in patria, a New York, presso l’anziano ricchissimo nonno materno, il quale si affeziona a lui e lo coinvolge in una vita agiata. Ma presto è precettato per la guerra in Corea. Qui sarà la moglie del generale a concupirlo invano e, simile alla viziosa sposa di Putifarre con il casto Giuseppe, ad accusarlo di molestie per vendicarsi del rifiuto. Per fortuna non ci sono drammi; il saggio comandante decide di allontanare il sottoposto congedandolo anzitempo e rimandandolo in patria. Rannie infatti è divenuto nel frattempo una celebrità: nauseato dalla corruzione e  dalla depravazione della Corea del Sud, ha infatti scritto un romanzo di denunzia intitolato “Choi”, in cui un vecchio coreano racconta senza reticenze la progressiva degradazione del proprio Paese sotto l’occupazione americana.

Il potente editore George Pearce, contattato dalla madre di Rannie,  trasforma il manoscritto da un giorno all’altro in un esplosivo best seller. Così il ritorno a New York del giovanotto coincide con la ricchezza (il nonno morendo gli lascia tutti i suoi cospicui averi compresi il devoto servo cinese e la splendida residenza su Central Park), la gloria letteraria e una travolgente celebrità. Rita Benson, piacente ereditiera che per hobby produce spettacoli nei teatri di Broadway, si adopera attivamente per il lancio mondano del giovane autore; e decide senza esitazioni di acquistare i diritti del libro per trasformarlo in un film di successo. Nel frattempo il signor Kung, padre della bella Stephanie, trasferisce a New York il suo fiorente commercio e le sue immense sostanze, pur di coronare prima di morire il sogno di vedere sua figlia impalmata da Rannie. Ma così non andrà; ci sarà un risvolto tanto inatteso quanto melodrammatico che non può essere svelato e che segnerà per sempre il destino del fortunato protagonista. Tutti vissero felici e contenti? Non proprio così, ma poco ci manca. L’impressione è che se il romanzo fosse rimasto a sonnecchiare nel cassetto, nulla avrebbe sottratto alla fama delle scrittrice; resta tuttavia la bruciante la curiosità di scoprire se la leggendaria opera maggiore, “La buona terra”, sarebbe ancora in grado di allettarci con inalterato magnetismo.


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