[Questa testimonianza è stata scritta da Eleonora Trivigno, italiana da 12 anni residente in Ucraina. Vive a Kiev. Laureata in Storia dell’Europa Centro-Orientale, Master in Internazionalizzazione di Impresa, in Ucraina si occupa di Marketing & Comunicazione. Con l’inizio delle proteste sulla Majdan ha iniziato una serie di collaborazioni con portali di informazione per documentare le vicende del Paese]
Quando il 21 novembre 2013 alcune migliaia di studenti si riversarono sulla Majdan per protestare contro la mancata firma degli accordi UE a Vilnius, sotto la minaccia dei rettori di annullare il corso di studi per i partecipanti alle manifestazioni, non diedi molto peso alla vicenda. Ho un altro retroterra storico, per me la libertà di movimento e di espressione sono un fatto acquisito, le do sostanzialmente per scontate, non ho mai dovuto lottare per acquisirle.
E, d’altro canto, le manifestazioni sembravano avere un carattere decisamente contenuto. Carattere che persero di lì a pochi giorni quando, intorno alle tre di notte, tra il 29 ed il 30 novembre, il corpo speciale “Berkut” (in seguito disciolto) caricò brutalmente gli studenti, eseguendo l’ordine dell’allora ministro degli Affari Interni, Zacharcenko. L’ordine era: ”sgomberare la piazza per allestire l’albero di capodanno“. L’albero di natale, tradizionalmente allestito sulla Majdan Nezalezhnosti, qui è detto “di capodanno” (novogodnaja el’ka), perché 70 anni di ateismo di Stato hanno provveduto ad eliminare ogni riferimento a qualsivoglia dimensione religiosa.
Ho seguito poco la stampa italiana, e quella internazionale in generale, perché non avevo un gran bisogno di leggere gli articoli di giornalisti che il più delle volte non hanno neanche messo piede in Ucraina, per sapere quel che accadeva qui. Ma so che le proteste di massa sulla Majdan sono state raccontate essenzialmente come un’opposizione tra Unione Europea e Federazione Russa. A volte qualcuno dall’Italia mi ha persino chiesto ingenuamente se era il caso di morire per l’Unione Europea.
Il punto è che i riflettori della cronaca si sono fermati molto in superficie, non sono riusciti (o non vi era il desiderio, né l’intenzione) a cogliere la sostanza vera delle cose. Quando le centinaia di migliaia di manifestanti dalla piazza scandivano “Ukraina ce Evropa!” (l’Ucraina è Europa!) non intendevano tanto l’Unione Europea come istituzione, quanto l’Europa quale dimensione culturale, sociale e, per certi versi, politica.
Nei secoli, in maniera altalenante, l’Ucraina si è trovata ad essere inglobata territorialmente nell’Occidens, acquisendo sia pure in maniera embrionale i principi di libertà individuale e collettiva, di democrazia, partecipazione, di movimento dal “basso verso l’alto”. Pertanto ha sempre mostrato una forte resistenza ai tentativi di ordinamento autocratico espressi dalla Russia zarista prima e da quella sovietica poi, tendenti all’immobilismo, alla negazione dell’individuo e dei suoi diritti.
Il regime di Yanukovich – oggi ricercato dall’Interpol dopo essersi riparato in Russia dopo i fatti di Majdan – ma soprattutto la prospettiva di un Paese parte integrante dell’Unione Doganale, con il conseguente rischio di vedersi nuovamente risucchiati nell’orbita russa (benché, di fatto, da quell’orbita l’Ucraina non si sia mai emancipata appieno, neanche durante i 23 anni di indipendenza) hanno acceso la protesta. Ma era una protesta che di nazionalistico non aveva proprio niente, se non la manipolazione che delle vicende è stata compiuta da alcuni mezzi di informazione.
Parlo esclusivamente russo, come del resto la quasi totalità dei keviani presenti in piazza, come mio marito, cittadino ucraino, ma di nazionalità russa. Aspetto questo, che né nel mio caso, né in quello di mio marito o di tanti amici, ha mai rappresentato un problema: nessuno ha mai usato violenza nei nostri confronti, nessuno ci ha mai privato del diritto di usare la lingua russa in ambito familiare, di lavoro o in qualunque altra dimensione. Anzi, come accadeva anche prima di Majdan, i più dialogando passavano al russo. Conseguenza non solo di una connaturata propensione alla tolleranza e del desiderio di mettere a proprio agio l’interlocutore, ma anche di uno strano meccanismo psicologico proprio delle generazioni tra i 30 e i 50 anni, vissuti qui in un periodo in cui non era né opportuno, né prestigioso parlare ucraino e a scuola si finiva per scegliere il russo. Ché, in caso contrario, c’era il rischio di essere accusati di nazionalismo, bandierismo, di fascismo insomma.
La stessa accusa, che è stata mossa nei confronti dei manifestanti di Majdan, perché le categorie di “fascismo” versus ”comunismo” sono ancora vive nella memoria di tanti europei, di tanta parte della società civile, e quindi in grado di rendere più efficace la propaganda. Del resto, niente di sorprendente: il Muro di Berlino, nel blocco sovietico, era più noto come “muro dell’antifascismo”, per cui chiunque tentasse di passare dall’altra parte era etichettato come fascista.
Da novembre 2013 ad aprile 2014 ho frequentato tutti i giorni Majdan più nel ruolo di testimone e di documentatrice, che di attivista, e francamente non sono riuscita a ricondurre al fascismo, al neo-nazismo, nessuna delle azioni, che lì si svolgevano: ragazze che preparavano butterbrod (panini) e bevande calde per resistere alle temperature invernali; ragazzi che si preoccupavano di mettere insieme vestiario pesante o medicinali, necessari a curare i feriti dopo gli scontri con le forze dell’ordine; uomini e donne di ogni età che tiravano su barricate riempendo sacchi con la neve, o che hanno dato la vita perché non passassero le leggi dittatoriali, promulgate il 16 gennaio 2014.
Sono anche convinta anche nelle proteste di Majdan non vi fosse nulla, che rappresentasse una reale minaccia per l’Est del Paese, dove peraltro fino ad aprile 2014 non sono mancate manifestazioni di solidarietà con la piazza di Kiev, poi opportunamente (e con la violenza) messe a tacere.
Nel conflitto, che ormai da mesi infiamma alcune aree orientali (circa il 7% del territorio nazionale) hanno pesato, in parte, un sistema imprenditoriale ed economico, in gran parte dipendente da Mosca, ma anche e soprattutto l’azione propagandistica di esponenti del Partito delle Regioni ed oligarchi, che vedevano nella secessione una possibilità di conservare il proprio potere ed il controllo sui flussi finanziari a livello locale, avendoli persi a livello nazionale. Ciò di fatto ha offerto il fianco all’ingerenza del Cremlino, per il quale l’Est ucraino riveste una funzione strategica importantissima di comunicazione con la Crimea, annessa in seguito al referendum del 16 marzo 2014. Senza un “corridoio” sul territorio continentale ucraino, di fatto, la penisola è privata di qualsivoglia di comunicazione e rifornimento.
Da mesi ormai in Ucraina si vive una vita di apparente normalità in gran parte del Paese, mentre all’Est si passa da periodi di relativa tregua a fasi di scontri più accesi. A dicembre si credeva che il conflitto fosse ormai sostanzialmente congelato, ma gennaio è stato caratterizzato da attacchi terroristici e attività militare di grande intensità. Pur non potendo affermarlo con assoluta certezza, personalmente credo che la nuova escalation non sia preludio di un’invasione o di un conflitto su più vasta scala.
Ritengo piuttosto, che il vero obiettivo sia quello di indurre l’Ucraina a promulgare lo stato di guerra, in presenza del quale i finanziamenti internazionali non sarebbero più possibili. E senza di essi il Paese si avvierebbe inesorabilmente verso il default, nel qual caso in molti da queste parti (in Ucraina, ma anche e soprattutto in Russia) a lungo penseranno, che non val la pena di scendere in piazza, protestare, rivendicare i propri diritti. Il prezzo da pagare sarebbe troppo alto.
[Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono di Eleonora Trivigno. Sono state scattate durante le manifestazione sulla Majdan.]
Da vociglobali.it