Filippo Vendemmiati si definisce un professionista liberato: giornalista Rai da quasi trenta anni, spiega che i suoi documentari sono nati come riscatto rispetto al modo di fare cronaca in Italia. Tutto inizia da È stato morto un ragazzo sul caso Aldrovandi, per arrivare a Meno male è Lunedì attualmente in giro nelle sale e nelle carceri. Un rapporto da separato in casa con l’azienda che lo ha formato professionalmente. Filippo Vendemmiati è forse un giornalista disilluso ma non perde occasione per trasmettere l’alto valore etico e sociale che per lui ha il lavoro.
La proiezione in anteprima di Meno male è Lunedì è stata un grande successo, la sala del Nuovo cinema Nosadella di Bologna era pienissima. Meno male è Lunedì a che genere appartiene?
Sui generi non mi espongo perché anch’io non so cosa sia e perché oggi i margini tra documentario e film sono molto labili. In questo caso volutamente ho cercato, forse con un po’ di presunzione, di tentare un linguaggio per me nuovo che sfrutta certamente quello del documentario, affiancandolo a quello della commedia brillante. È strano, si parla di carcere però il pubblico ride anche, ha applaudito a scena aperta per questo confronto di umanità che c’è tra operai e detenuti. Uno dei miei obbiettivi è stato raggiunto: parlare seriamente di carcere, libertà e lavoro in un modo anche leggero dove l’immagine del detenuto è quella di una persona, non di uno segregato solamente. Avere la sala piena è stata una grande soddisfazione non solo per me, per quelli che hanno lavorato con me, per questi splendidi venti detenuti. Tra l’altro in un momento non facilissimo per le sale italiane. Certo, giocavamo in casa perché ora siamo nella città dove questa esperienza è nata.
La partita più difficile è stata nel carcere duro di Spoleto e prossimamente sarà all’interno della Dozza? Sul piano personale è proprio questa la partita più difficile: la proiezione nel carcere. A Spoleto c’è stato un dibattito vero, un confronto duro, non alla Nanni Moretti. Perché quello è un carcere di massima sicurezza, dove ci sono i detenuti al 41bis. Significa che quando entri nel cortile vedi le gabbie con le persone che fanno avanti e indietro come se fossero animali rinchiusi. Una di queste persone alla fine del film mi ha avvicinato e mi ha detto: “Io sono un finepenamai e certo, il film è bello ma lei che cosa vuol dire? Che per lavorare bisogna prima venire in carcere? Io preferisco essere disoccupato tutta la vita piuttosto che essere qui”.
Lei cosa ha risposto?
Che il nostro obbiettivo è diffondere questa esperienza positiva: laddove i detenuti lavorano il tasso di recidiva si abbassa dal 70 al 15%. Nel carcere si entra colpevoli, se non si è vittima di un errore giudiziario, e si deve uscire innocenti, con una prospettiva davanti. A Spoleto non ero sufficientemente preparato e anche io le prime volte che sono entrato nella Dozza ho avuto un po’ di soggezione. Invece è il detenuto che cerca il nostro sguardo, che ha voglia di parlare con noi se solo capisce che non sei lì per fotografare un animale in gabbia. Se noi cominciassimo ad aprire le carceri alla società probabilmente aiuteremmo sia le carceri sia l’idea che la società ha del carcere. Se le scuole cominciassero ad andare dentro al carcere faremmo un lavoro grandissimo di formazione. Chissà forse anche di prevenzione.
Questa idea com’è nata?
Gian Guido Nardi, uno degli ideatori di questo progetto (FID, Fare Impresa in Dozza), allora consigliere regionale e mio piccolo fan oltre che amico, mi ha proposto di andare a dare un’occhiata nell’officina. Ho lasciato passare un po’ di tempo ma un giorno l’ho richiamato: “Fammi entrare senza impegni, così vedo…”. Ed è stato un amore immediato e addirittura doloroso. Ricordo che dopo pochi minuti che ero lì due detenuti si sono avvicinati ed abbiamo cominciato a parlare. Ho visto nei loro occhi la voglia di sapere perché fossi lì. Tanto è vero che una guardia ci ha diviso: non potevo parlarci. Lì ho sofferto molto. Quando ci hanno allontanati ho visto il loro dolore. Poi uscendo ci siamo salutati con l’occhio e allora… allora a quel punto ho capito: “Questa cosa si fa!”. Così ho coinvolto il mio solito gruppo e aggiunto Stefano Massari che al di là del fatto di essere direttore della fotografia è in empatia intellettuale, emotiva e ideologica, se si può ancora usare questo termine, con me, è rimasto entusiasta subito dell’idea. Lo spunto inizialmente è stato quello delle mani collegate alla testa come simbolo di trasmissione del sapere, delle conoscenze, tanto è vero che il film inizialmente si doveva chiamare “Di mano in mano”, poi ci siamo resi conto che era un titolo un po’ troppo ecumenico. Donata che è la produttrice del film ha avuto questa idea meravigliosa secondo me di Meno male è Lunedì che coglie tutto, coglie tante cose anche sul mondo del lavoro.
Io, forse questo mi deriva dalla schizofrenia del giornalismo, non posso tenermi una cosa quattro cinque anni. Devo farla. Infatti per un documentario i tempi produttivi sono stati tutto sommato veloci se tu pensi che le riprese sono iniziate l’11 novembre 2014 è meno di un anno fa.
Complimenti, una squadra che lavora in maniera eccezionale perché altrimenti non sarebbe stato possibile!
Ecco! Questo è un bel termine: lavora. Oggi si parla di una stagione d’oro del documentario in Italia. Premi vinti, una forte produzione ed una grande qualità di documentari. Il problema è che i documentari sopravvivono in condizioni di mercato quasi impossibili. Il fatto di avere un’idea, di realizzarla, di riprenderla e montarla è il minimo. È l’impegno minimo. Il problema poi è riuscire a dare visibilità, trovare esercenti disponibili, fuori dalle logiche di mercato, trovare canali televisivi che li trasmettano. Spesso, a proposito di lavoro, questi documentari si reggono su un’autoproduzione dei produttori e già è un grande risultato riuscire a pareggiare alla fine. Oggi in Italia i documentari si producono perché il lavoro intellettuale che sta dietro il documentario non viene pagato: l’autore, il montatore, lo sceneggiatore, chi scrive i testi, la regia, è un lavoro volontario, gratis. Per questo ci sono documentari di qualità perché molte di queste persone tra cui me, pur di farlo, accettano di non essere pagate. Io me lo posso permettere, un giovane non può permetterselo. Inoltre l’accesso ai fondi pubblici è impossibile per un documentario: i fondi del MIBAC hanno delle regole burocratiche impossibili. Questo è il grosso equivoco che aleggia: vanno bene le recensioni, i complimenti, i premi ma poi l’autore va in giro a portarsi il documentario mano per mano, a vendere i DVD. In questo i giovani sbagliano perché pur di avere visibilità accettano di distribuire gratuitamente ai cinema e alle TV i loro prodotti. Questo non si deve fare perché il lavoro va pagato.
Torniamo al film. La presenza delle telecamere durante le riprese che effetto ha avuto? Un elemento toccante del documentario è che sembra non ci siano filtri tra voi e loro. Sembra di essere di fronte alla verità dei comportamenti, cosa da non dare per scontata.
Questo è l’aspetto di cui sinceramente sono più fiero. E lo devo molto allo staff e al gruppo di amici che ha lavorato con me: Stefano Massari, Giulio Filippo Giunti e Simone Marchi. È soprattutto merito loro se c’è stato questo rapporto di empatia e fiducia reciproca, tra le telecamere e i personaggi del film. Inizialmente alcuni di loro erano molto restii poi quando abbiamo iniziato le riprese ci siamo subito resi conto che questo rapporto umano dentro all’officina aveva contagiato anche il set. Per cui loro facevano esattamente le stesse cose anche con le telecamere. Abbiamo deciso di non preparare nulla a tavolino, tutto è stato ripreso così come avveniva e là dove ci sono state alcune scene che sono avvenute a telecamere spente abbiamo deciso di non rifarle. Peccato, le abbiamo perse! Ma questo avrebbe inquinato la freschezza.
Come viene vissuto questo particolare spazio da operai e detenuti?
Per gli operai è un’officina, non è un carcere. E sono riusciti a trasmettere questa idea anche ai detenuti: sono in un’officina, questo è il miracolo che sono riusciti a costruire. La maggior parte dei tutor non ha chiesto di vedere le celle né il perché fossero in galera, a meno che questo non avvenisse per iniziativa del detenuto. Non c’è stata la curiosità un po’ morbosa, un po’ voyeristica di sapere. Lì c’è gente che è stata condannata anche a venti anni per omicidio, che ha sequestrato 5000 tonnellate di hashish. Sono reati come minimo sopra i cinque anni. Ma loro pensano: “Se devo venire qui per stare in pace con la coscienza vado da un’altra parte perché non sono mica venuto per fare l’assistente sociale o il prete”. Vengo qua per fare il mio lavoro e se loro vogliono imparare bene altrimenti peggio per loro. Molto laico come rapporto e per questo funziona. E non si fanno sconti tra loro. Se si devono dire qualcosa se la dicono. Poi c’è Valerio Monteventi, straordinario mediatore culturale che anche cinematograficamente ha una faccia che migliore non poteva essere, che è il vero tramite tra gli uni e gli altri. Insomma questa azienda ha un bilancio, ha degli utili, dà delle buste paga, dà lavoro a un indotto che trasmette ulteriore lavoro. I detenuti che poi sono usciti e sono stati impiegati, hanno avuto riscontri positivi, le aziende sono state molto soddisfatte, c’è un coinvolgimento economico vero, non è assistenza. In carcere ci sono già molte cose importanti che però appartengono tutte alla sfera del volontariato, dell’assistenza, della beneficenza, al buonismo.
A questo proposito va ricordato il film Cesare deve morire. Rebibbia è un carcere all’avanguardia dal punto di vista della riabilitazione interiore, attraverso teatro e scrittura creativa ad esempio. Ma Cesare deve morire mostra come ciò non basti perché manca un ulteriore riscatto, quello nel reale e nella società, che solo il lavoro consente. Forse non è un caso che il suo documentario sia una quasi commedia mentre Cesare deve morire una tragedia.
Non nascondo che io mi sono confrontato a lungo con Cesare deve morire. Cinematograficamente è un rapporto che non reggo, stiamo parlando di un capolavoro della cinematografia mondiale. Non nascondo però che mi sia detto “Io devo fare esattamente il contrario”. La sensazione che a me ha trasmesso Cesare deve morire è una profonda sensazione di morte, di tragedia. C’è un riscatto interno che però muore. E io, visto che c’è questa esperienza della Dozza, ho sentito di fare esattamente il contrario: noi dobbiamo riuscire a descrivere il fatto che in carcere ci può essere anche la vita non c’è solo la morte.
L’idea del lavoro che si portano dietro questi operai esiste ancora? Provi a rispondere ad un giovane precario.
Spesso mi chiedo se la loro non sia un’idea antica del lavoro, costruita su una grande etica. Se esiste ancora o se è morta. Qualcuno mi ha chiesto: “Ma esistono ancora questi lavoratori?”. Ad un giovane precario la prima cosa che si insegna è la flessibilità, a stare sei mesi da una parte sei dall’altra mentre questi hanno lavorato 40 anni nella stessa azienda e la cosa che mi ha colpito in loro è il senso di appartenenza. Loro ti dicono “Io sono uno della Gd, io sono uno dell’Ima” e lo rivendicano. Poi alcuni fanno attività sindacale anche dura, nella Fiom, fanno scioperi per il loro contratto. Le due cose non sono in contraddizione. Altro che Articolo 18, qui siamo oltre.
Le tre aziende del progetto FID hanno da sempre messo l’etica al centro dei loro valori. Io non so è un caso che queste tre aziende ricavino l’80% del loro fatturato esportando nel mondo e continuino ad avere indici economici straordinari, a fare investimenti milionari e ad aprire nuovi stabilimenti in Italia e all’estero. Mi piace pensare che anche da un punto di vista industriale queste siano industrie virtuose e che anche l’industria italiana dovrebbe prendere esempio; che l’etica è l’unica ancora di salvezza per l’economia italiana. Certo i tempi sono cambiati ma questa esperienza mi pare abbia funzionato, l’altra mi pare che non stia funzionando. Un giovane precario credo rimanga colpito da questa idea che loro hanno del lavoro: il lavoro fa davvero parte di te, ti crea la tua coscienza sociale, le relazioni umane, non è solo “una rottura di balle”, quando lavori non devi toglierti il cappello davanti a nessuno.
Spero di rivedere il documentario magari in RAI nel suo formato originale, così come ho avuto la fortuna di vederlo al cinema.
Beppe Giulietti lavora in RAI come me. Credo che proviamo lo stesso amore profondo per la RAI che però è un amore fondato su una profonda disillusione. Questo credo di condividerlo con Beppe. Sono stato autorizzato dalla RAI per fare questi film e per tutti e tre i documentari ho chiesto alla RAI di farlo insieme, magari viene anche meglio. Riguardo il progetto di Meno male è Lunedì mi hanno detto: “Sì è bellissimo ma i fondi per il 2014 sono finiti”. Nel caso di È stato morto un ragazzo, vincitore di un David di Donatello, la RAI non l’ha finanziato ma poi il film è stato comprato, a quel punto da terzi… A suo tempo, quando mi dissi qual era il budget mi risposero: “Così basso? E come facciamo a giustificare le altre produzioni?”. Risposte surreali. Mi dissero: “Chi è questo Aldrovandi? A chi importa di un ragazzo di Ferrara?”. Di Ingrao: “Ma ancora lui? C’ha quasi cent’anni, dobbiamo parlare ancora di Ingrao?”. Non era parlare di lui, ma di cos’era la politica un tempo, di uno che ha vissuto tra mille contraddizioni ed errori. Non è l’elogio di un comunista è l’elogio di una persona che ha vissuto la politica con grande passione nel tentativo di cambiare il mondo. Ho fatto cronaca per 20 anni. Cronaca dura di brigantismo e di stragi da quelle ferroviarie e aeree all’inchiesta Biagi. L’ho fatto con grande impegno e devo essere grato alla RAI per essermi formato su queste storie. Però poi l’informazione è cambiata: ora tutto deve essere bruciato nel giro di trenta minuti, oggi fai una cosa e domani un’altra, c’è la perdita della memoria, non si tengono più gli appunti. Al tempo di Aldrovandi questa cosa mi è esplosa tra capo e collo perché è una storia che ho vissuto con grande coinvolgimento giornalistico-professionale ma, non lo nascondo, anche emotivo.
Quindi in che modo viene vissuto il documentario da un giornalista?
Qui c’è il tempo per scegliere, approfondire, per andare dietro una storia, per creare relazioni. C’è il tempo anche del dopo, per vedere se quello che hai fatto ha un riscontro, come viene recepito. Il documentario su Aldrovandi lo porto ancora in giro e visto che è migliorata la coscienza sociale però a livello legislativo siamo sempre a dieci anni fa, ogni tanto mi chiedono: “A cosa è servito se non è cambiato niente?” A sensibilizzare un milione di persone.
Le prossime tappe di Meno male è Lunedì?
Adesso rimane al Nuovo cinema Nosadella di Bologna per almeno una decina di giorni. Abbiamo già altre tappe in provincia di Bologna, speriamo di portarlo in tutte le città dell’Emilia. Andiamo a Roma, Torino. Poi abbiamo ricevuto un invito da parte di un’associazione culturale da parte di italiani che vivono a Bruxelles ed un altro quasi ufficiale da parte del Parlamento europeo per una proiezione a marzo. Credo che un po’ faccia bene all’Italia anche se non vogliamo fare i promoter del Ministro Orlando: la situazione è migliorata in alcune circostanze ma siamo sempre sotto osservazione per quanto riguarda le nostre carceri. Proprio in questi giorni è stato tagliato il fondo per le cooperative di ristorazione all’interno delle carceri. Si parla di una cifra ridicola come 3 milioni di euro quando il tasso di recidiva costa allo stato 40 milioni di euro.