Di Mauro Valeri, Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio
Quanto accaduto al sedicenne indiano, giocatore del Sebino Basket Villongo, è per molti versi tanto paradossale quanto emblematico. I fatti sono noti (la notizia su La Stampa, Libero – Milano, Corriere della Sera): il ragazzo, di religione sikh, da 5 anni aveva unito la sua passione per il basket alla sua scelta religiosa, che prevede, tra l’altro, l’obbligo di portare i capelli raccolti.
A differenza di quanto titolato da molti giornali, il ragazzo non scendeva sul parquet con il turbante, ma con un semplice patka, cioè una sorta di retino-cuffietta che permette agli sportivi sikh di giocare senza dover rinunciare al credo religioso. Per 5 anni questa modalità di presentarsi in campo non aveva suscitato alcun clamore, anche perché le regole sia della Federazione internazionale di Basket (FIBA) sia di quella italiana (FIP), prevedono che nei tornei giovanili valga il buon senso. Non ha avuto di certo buon senso l’arbitro che ha impedito al ragazzo indiano di scendere sul parquet prima di una partita proprio a causa del patka. Sentitosi giustamente offeso, il ragazzo ha preferito non togliersi il copricapo e tornare negli spogliatoi, seppur in lacrime. Con molto buon senso, invece, i suoi compagni di squadra l’hanno seguito, convincendolo poi a giocare una partita amichevole senza l’arbitro “tutto d’un pezzo”.
È quindi una storia a lieto fine, anche per la presa di posizione del presidente dalla FIP, che ha espresso rammarico per quanto accaduto, invitando tutti a tornare ad avere maggiore buon senso. Il paradosso sta proprio in questo: il buon senso è certamente una virtù apprezzabile, ma è lasciato troppo alla volontà del singolo, che può interpretare le regole come meglio crede. Pur essendo il caso considerato eccezionale, perché non risultano altri giocatori sikh nei campionati italiani di basket, è pur vero che la presenza dei sikh in Italia è ormai storica (siamo ormai quasi alla terza generazione) ed è imbarazzante che la stessa FIP, così come altre federazioni sportive, già in passato non abbiano scritto una riga su questo problema. Una “distrazione” che certo non ha favorito e non favorisce l’idea che lo sport possa essere un fondamentale veicolo di integrazione, divenendo invece, un ambito di discriminazione.
D’altra parte c’era stato un precedente l’anno scorso anche nel calcio giovanile, che per molti versi è ancor più paradossale. Infatti anche Gurpartap Singh, sin da ragazzino, con i Giovanissimi del Ghedi, aveva scelto di giocare a calcio con il patka e nessuno si era stupito più di tanto. Una volta quindicenne, passato con il Montirone, erano però iniziati i problemi. Alla prima partita, l’arbitro prima gli nega di entrare, poi ci ripensa e, a pochi minuti dalla fine, gli consente di giocare. Alla seconda partita, l’arbitro non ha nulla da ridire. Alla terza partita l’arbitro invece gli ordina di togliersi il patka altrimenti non avrebbe potuto giocare. Gurpartap ha detto che il patka non l’avrebbe tolto, rinunciando così a giocare, ma capendo come in Italia il “buon senso” è a intermittenza. Per fortuna, poco dopo, la Federazione internazionale di calcio (FIFA) ha regolamentato l’uso del patka e almeno Gurpartap e i suoi amici sikh ora possono giocare a calcio.
Queste storie stanno a dimostrare quanto le istituzioni sportive italiane non abbiano alcuna voglia di aggiornare i regolamenti, e probabilmente la loro cultura, alla nuova realtà italiana che è una realtà dove esistono centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze di seconda generazione a cui lo sport è ancora proibito per un’interpretazione astorica dei regolamenti. E, viene da aggiungere, volutamente, perché a differenza di altri paesi, in Italia a dominare sono ancora i cosiddetti “vivaisti nazionali”, difensori di un’Italia che non c’è più, e strenui oppositori all’Italia che è e che sarà.
Mauro Valeri