Forse la vicenda del vagone piombato in piazza Castello a Torino non ha fatto tanta strada nel Paese, è rimasta una storia subalpina, ma forse no. Di certo le parole del Sovrintendente ai Beni Architettonici di Torino, tal Luca Rinaldi (probabilmente da Rivombrosa) che ha definito l’installazione di un vagone piombato messo davanti a Palazzo Madama, in piazza Castello a Torino, un “baraccone”, hanno sollevato il più bel dibattito e la migliore campagna di sensibilizzazione per la mostra dedicata a Primo Levi e ai 70 anni dalla liberazione di Auschwitz.
Per far capire come fosse fuori quota quella esternazione del nostro valente dottor Rinaldi va anche detto che “baracconi” è lo stesso nome che i torinesi davano alle giostre della vicina piazza Vittorio Veneto che, tanti, tanti anni fa, segnalavano ai torinesi l’arrivo del Carnevale e, quando venivano smontati, la sua dipartita. Il Sovrintendente, subissato da pernacchie di ogni ordine e grado, ha perso. Il vecchio vagone, testimone delle deportazioni naziste, resterà lì. Insomma le ha buscate alla grande, un coro di intellettuali, superstiti, politici ha chiesto la sua rimozione, altro che quella del vagone.
Lui si è giustificato dicendo che proprio in considerazione del valore simbolico dell’oggetto, in memoria del padre partigiano, eccetera, eccetera, aveva concesso l’installazione pur in una piazza vincolata dai Beni ecc. ecc. Orbene, dobbiamo quindi ringraziare il ricordo del padre partigiano se il “baraccone” non è tornato tra i materiali rotabili in disuso? In pratica se la decisione politica di ricordare uno dei momenti più bassi e vili della storia, presa in una delle città simbolo della Resistenza al nazifascismo, non si è fermata davanti a un dipendente dello Stato, un burocrate che dice “no”? Mi state dicendo che un vagone di quelli che partivano da Porta Nuova destinati ad Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen, per poter testimoniare la sua storia deve rendersi compatibile con il luogo nel quale viene collocato? In pratica se fosse stato imbellettato, foderato di carta da parati o inserito in un gigantesco trompe l’œil o seminato di faretti stroboscopi, sarebbe stato accettato? Francamente, fatte salve la giuste e opportune vigilanze su posa e rimozione di un oggetto così pesante in una piazza storica, la decisione di autorizzare o meno l’inserimento di un oggetto evocativo della nostra storia non credo sia lavoro per un burocrate di Stato.
Caro Sovrintendente Rinaldi da Rivombrosa, non mi sembra una cretinata aver apostrofato quel vagone piombato “baraccone” mi sembra stupido che sulla sua presenza e sul suo ruolo sia Lei a doversi esprimere con un nulla osta. La ringrazio per aver sollevato tutto questo vespaio subalpino, speranzoso che la gente di Torino fotografi bene quell’inquietante testimone, soprattutto i giovani cosi disorientati e indifesi davanti al futuro visitino la mostra “I mondi di Primo Levi – Una strenua chiarezza”. La ringrazio per aver ricordato la sua storia familiare peraltro simile alla mia: anch’io ho un padre partigiano e avevo anche uno zio, di parte materna, Lorenzo Cravero, anche lui partigiano che su uno di quei vagoni ci è salito davvero per andare a morire a Mauthausen nel dicembre del ’44. Forse anche lui e i suoi sventurati compagni, catturati dai tedeschi nella primavera dello stesso anno, torturati nella caserma di via Asti e poi spediti in un campo di concentramento a morire, forse anche a loro quel carro sembrò un baraccone ma ci salirono costretti dalla storia. Certamente inorriditi da quanto stonava andare a morire così, senza nemmeno un’ambientazione rispettosa dell’architettura e senza un timbro “amico” che giustificasse l’estetica di una morte eroica.