Auschwitz, settant’anni fa. Ricorre l’anniversario della liberazione della più nota, e atroce, macchina di morte mai inventata dagli esseri umani per distruggere i propri simili e, come ogni anno, ci si interroga sull’utilità della memoria e della celebrazione, fra chi sostiene che ormai sia il caso di porre in archivio la vicenda e chi, al contrario, ritiene che proprio la distanza nel tempo obblighi a ricordare e trasmettere ai più giovani le testimonianze di quanto è avvenuto.
Noi apparteniamo alla seconda scuola di pensiero: crediamo, infatti, che proprio perché i superstiti si assottigliano di anno in anno, proprio perché, a breve, ogni testimonianza diretta sarà andata perduta e proprio perché ormai quell’infinita serie di atrocità appartiene, a tutti gli effetti, a una pagina di storia, sia doveroso sfogliarla e porla all’attenzione di chi oggi ha la fortuna di vivere in un’Europa nella quale i ponti hanno preso il posto dei muri e, checché ne pensi qualche eroe dei nostri tempi, per viaggiare da un paese all’altro non è più necessario sottoporsi ai controlli alla frontiera. Sono proprio loro, infatti, a dover conoscere e capire, a dover rifiutare il male e chi se ne fa oggi portatore, a dover reagire ai neonazisti del Terzo millennio, purtroppo presenti e talvolta quasi governanti in diversi paesi europei, e a dover ribadire con tenacia e fermezza il valore imprescindibile della democrazia, contro ogni forma di barbarie, contro le idee aberranti che qualcuno si ostina a propugnare, contro l’inciviltà di chi nega l’esistenza stessa delle camere a gas o inserisce nel proprio programma elettorale la persecuzione degli immigrati, clandestini o meno che siano.
Perché aveva ragione Bobbio: la democrazia non è un fatto acquisito, non è per sempre; va difesa, custodita e rinnovata ogni giorno, va adeguata ai tempi e conservata nella sua dignità. Quella dignità che oggi viene umiliata dalle pratiche selvagge del neoliberismo arrembante che mette in discussione i diritti e il rispetto delle persone; quella dignità che oggi viene calpestata dall’espropriazione ai cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti; quella dignità che è stata calpestata in Grecia, messa in discussione in Spagna e in Portogallo e aggredita in Italia da richieste economiche insostenibili; quella dignità che deve vederci protagonisti di un nuovo cammino di speranza e di una nuova battaglia per i diritti, simile a quella che fu intrapresa all’epoca affinché quell’affermazione, “mai più”, non risultasse solo vuota retorica.
Dire concretamente “mai più” a quel modello d’Europa, anzi a quella negazione dell’Europa, della sua storia e del suo abbraccio fra culture e religioni differenti, significa costruire un argine contro il lepenismo dilagante, significa contrastare con la dovuta fermezza il movimento tedesco di PEGIDA e il partito greco di Alba Dorata, i fascisti mascherati e quelli dichiarati, i razzisti che si trincerano dietro l’insopportabile frase “non sono razzista, però” e i ciarlatani che minimizzano qualunque episodio, compresi i più gravi, magari richiamandosi ad assurdità come la società post-ideologica e altre costruzioni artificiose del nostro tempo.
Dire “mai più” significa, poi, riscoprire il gusto per la politica perché è nell’anti-politica, nell’idea che siano tutti uguali, nel qualunquismo, nella rassegnazione e nello sconforto della collettività che certe idee raccapriccianti trovano il loro terreno di coltura ideale e persino la loro giustificazione, in quanto non vengono respinte fin da subito con la dovuta fermezza e intransigenza.
E significa infine, ma so che questa è quasi una pretesa da utopisti, immaginare che possa esistere un futuro e un secolo di pace ma, soprattutto, un secolo che abbia una sua storia e una sua ideologia, una sua Europa di civiltà e diritti e un suo mondo capace di accogliere e fare proprio questo messaggio, dopo un secolo straripante e, forse, irripetibile quale è stato il Novecento: un secolo troppo grande per essere raccontato, troppo intenso per essere rivissuto, troppo denso di passioni, ideali, speranze, follie e progressi per essere compreso nella sua bellezza e nella sua tragicità.
Una straordinaria tragedia: questa è la definizione che ci viene in mente a proposito del secolo che ci siamo lasciati alle spalle ormai da quindici anni ma che è ancora presente nelle nostre teste, nelle nostre vite, nei nostri pensieri, nei nostri racconti, come un passato ingombrante che torna costantemente e dal quale non riusciamo a trarre l’energia necessaria per costruire un futuro all’altezza.
“Mai più” per guardare indietro e per ripartire: “mai più” per gridare contro le guerre dimenticate e le persecuzioni ignorate; “mai più” per rivendicare la nostra solidarietà nei confronti del popolo ebraico ma anche la nostra completa avversione all’indirizzo di Netanyahu; “mai più” per la Shoah che ogni anno giustamente ricordiamo e per i tanti olocausti di cui, invece, non si parla; “mai più” per osservare con occhi diversi il dramma dei popoli africani che oggi stanno vivendo la propria diaspora; “mai più” per trasformare una solenne ricorrenza in un momento di riflessione e d’incontro collettivo, per riscoprire il valore della fraternità e opporci con forza alla dissoluzione di qualunque idea di società e di comunità cui stiamo assistendo inerti da trent’anni.
“Mai più” con la strofa finale di una stupenda canzone di Francesco Guccini, intitolata “Auschwitz”: “Io chiedo quando sarà / che l’uomo potrà imparare / a vivere senza ammazzare / e il vento si poserà”.