Il commiato di Re Giorgio
Chi si aspettava un discorso da consegnare agli annali sarà rimasto deluso: il discorso di commiato di Napolitano non passerà agli annali e non sarà certo ricordato come la migliore delle sue riflessioni. Nulla in confronto al “Te Deum” pomeridiano di papa Francesco in cui il pontefice ha sferzato la politica, invitandola a liberarsi dal cancro della corruzione e dell’affarismo ed esortandola a tornare ad occuparsi dei poveri, degli ultimi, dei deboli, di chi da solo non ce la fa e ha bisogno di aiuto anziché lucrare sulle disgrazie di quella vasta porzione di umanità in fuga da guerre, discriminazioni e miseria che giunge da noi e trova ad attenderla altre discriminazioni, altro disprezzo, altre intollerabili violenze, sia pur diverse da quelle che la perseguitavano in patria.
Un discorso d’addio nel quale il Capo dello Stato ci ha tenuto a mettere in chiaro fin da subito di non essere disposto, per ragioni di età e di logoramento fisico, a portare avanti il compito che il Parlamento gli ha affidato nell’aprile del 2013, quando la democrazia ha sbandato e il Paese ha rischiato di cadere in una spirale d’instabilità e incertezza dalle conseguenze imponderabili.
Il guaio, e questa è, a nostro giudizio, la parte mancante nel discorso di Napolitano, è che in quella spirale l’Italia ci è piombata lo stesso, a causa del protrarsi eccessivo di un’esperienza, quella delle larghe intese, dannosa ovunque per l’elevato livello di confusione ideologica che reca con sé ma impraticabile in un paese come il nostro dove le differenze fra i diversi schieramenti hanno investito, per decenni, non solo la collocazione politica ed ideologica ma addirittura gli stili di vita e le modalità espressive.
Ci spiace per Napolitano, sulla cui presidenza torneremo al momento delle dimissioni, ma non ci sorprende affatto che la Presidenza della Repubblica sia l’istituzione che negli ultimi quattro anni (in base ai dati forniti su “la Repubblica” di lunedì scorso da un’indagine del professor Ilvo Diamanti) ha perso maggiori consensi, meno 27 per cento rispetto al 2010, e che oggi gli italiani si fidino, guarda caso, unicamente del Papa, considerato l’unica figura davvero attenta alle esigenze e ai drammi delle persone più fragili, che ormai non credono più in niente e non si fidano più di nessuno, sfiancate da una crisi di cui non vedono la fine e indignate di fronte ai miasmi fuoriusciti dalle inchieste che hanno caratterizzato il 2014.
Non siamo sorpresi perché l’ultimo quadriennio è coinciso esattamente col periodo delle larghe intese: dalla chiamata di Monti e del governo tecnico al mancato incarico a Bersani, fino alla rielezione di Napolitano, all’incarico affidato a Letta e dieci mesi dopo a Renzi, attraverso una sfiducia votata non dal Parlamento ma dalla Direzione del PD che, ci teniamo a ricordarlo ai fedelissimi del Premier, almeno fino a questo momento non risulta essere un’istituzione della Repubblica.
Grande attenzione da parte del Presidente anche sulle riforme istituzionali e costituzionali, e qui risiede il nostro principale punto di dissenso perché, a differenza sua, siamo convinti che tanto l’Italicum quanto questo nuovo Senato ridotto a dopolavoro per cacicchi locali siano in contrasto con lo spirito della Costituzione.
A tal proposito, saremmo lieti di sapere da Napolitano se non tema che quest’ulteriore spoliazione dei cittadini delle loro prerogative di scelta, peraltro riconosciute dagli articoli 1 e 3 della Carta, non rischi di aggravare una disaffezione ormai divenuta, qui siamo d’accordo con lui, oggettivamente allarmante. E se non tema, altresì, che istituzioni ancora meno votate, ancora meno autorevoli e rappresentative e ancora più asservite al capopopolo di turno, sia esso di governo o di opposizione, tecnico o politico, europeista o anti-europeista, non rischino di portare altra acqua al mulino preoccupante dell’anti-politica e delle soluzioni folli quali l’uscita dall’euro o i respingimenti in massa degli immigrati.
Con tutto il rispetto per le idee e le posizioni più volte espresse dal Presidente, ci teniamo a far presente che non basta varare una riforma qualsiasi per essere riformisti e che, a proposito di riformismo, esso non è un concetto neutro: c’è un riformismo in linea col dettato costituzionale e un riformismo non in linea con i princìpi espressi dalla Carta; oltretutto, c’è un riformismo di destra e un riformismo di sinistra, assai poco praticato negli ultimi vent’anni e, più che mai, nel novennato che stiamo per lasciarci alle spalle.
Così come non bastano annunci, slogan, frasi fatte e richiami a un ottimismo generico e di maniera per produrre un’azione di governo adeguata alla gravità dei tempi che stiamo vivendo e che lo stesso Napolitano, di questo gli va dato atto, ha spesso richiamato nelle sue uscite pubbliche.
Complessivamente, di quest’ultimo discorso del Capo dello Stato rimarrà soprattutto la condanna senza appello, che ci sentiamo di condividere, nei confronti delle violenze contro i cristiani e della barbarie portata avanti con spietata lucidità dalle organizzazioni terroristiche in Medio Oriente, anche se al riguardo avremmo gradito un minimo accenno alle responsabilità dell’Occidente in tutto questo perché l’ISIS non è un fiore malvagio spuntato nel deserto per caso ma un frutto avvelenato sorto dopo anni di guerre inutili, sanguinose e dannosissime di cui ora, purtroppo, a pagare le conseguenze sono persone che non hanno alcuna colpa se non quella di essersi recate in quei paesi per svolgere il proprio lavoro.
Il nostro augurio, in conclusione, è che il 2015 ci regali un Presidente della Repubblica altrettanto esperto e autorevole ma con idee leggermente diverse, soprattutto in fatto di collaborazione fra destra e sinistra. Al momento, sappiamo di essere degli eretici, cultori di utopie irrealizzabili; tuttavia, sappiamo anche che essere di sinistra significa proprio stare dalla parte di quelle utopie, apparentemente irrealizzabili, che per fortuna, ogni tanto, si avverano.