Dissidēre, in latino, significa letteralmente “sedere separatamente”. I dissidenti, quindi, sono quelli che si distaccano, per diversità di vedute su un punto preciso o su vari argomenti di carattere generale, dal gruppo, dalla collettività, dalla confessione religiosa a cui appartengono. O meglio, appartenevano, dato che quell’allontanamento spesso li separa.
Poco male se dissidente qualcuno lo è su visioni del mondo o sue teorie interpretative. Può capitare, però, che quel dissenso, inteso come farsi da parte, si esprima rispetto alla società stessa e complessivamente intesa, disconoscendone valori, princìpi, obiettivi. E questo non è mai buono. Peggio ancora è quando ciò deriva dal sentirsi messi in disparte da quella medesima società, e perciò gli esclusi immaginano di ricambiare la separazione con il disconoscimento.
Perché ad alcuni accade questo? Per diversi motivi. Perché le dinamiche dominanti in quel consesso civile li escludono, senza possibilità di essere considerati. Perché proprio non riescono a starci dentro un simile sistema, per limiti personali, capita, o proprio per come esso è costituito, succede. Perché succede che sia così, per una serie di errori commessi da loro o scelte sbagliate da chi per essi doveva decidere. Fatto sta che a volte è quello ciò che c’è, e con tale scenario bisogna fare i conti.
Solo che spesso quei conti nessuno li vuol fare. Avviene allora che gli esclusi vengano ulteriormente tagliati fuori anche dai piani e dai programmi di inclusione, o da questi loro stessi si escludano. E sovente di questo nessuno ha colpa, quasi che lo scenario fosse così determinato, in virtù dei moti millenari astrali o della deriva dei continenti.
Poi, infine, ci sono le società che rinunciano a contenere gli esclusi, verso le quali questi ultimi ripagano tale dimenticanza con la rinuncia a essere contenuti e contemplati nel contratto sociale. Si astengono dall’essere cittadini, e non sto parlando del voto, non solo di questo almeno. Quell’astensione elettorale è una forma, evidente e computabile, ma ce ne sono altre, non meno drammatiche anche se più nascoste e ignorate.
C’è la rinuncia a far parte della comunità decidente attraverso l’espressione delle proprie opinioni, a dire la propria, certo, ma ci sono un’infinità di tipi di astensione. Dalla renitenza a far parte di qualsiasi azione di rivendicazione collettiva di diritti particolari o generali alla riluttanza a dare qualsiasi contributo alla soluzione di problemi e controversie, passando per la rinuncia a cercarsi un posto nel mondo, del lavoro e non solo, fino alla totale, piena e irreversibile resa alla condizione di estraneità rispetto a tutto quanto accade al di fuori del personale io, e forse nemmeno di quello ci si cura più di tanto.
Uno scenario complicato ancora di più dalla considerazione dei numeri che sta assumendo questo processo. Se prima sembrava un epifenomeno legato a culture marginali come quelle della Montegrano familistica e amorale di Edward Banfield, oggi è un elemento sempre più centrale nelle dinamiche sociali. È come se al riflusso individualista dopo la stagione del flusso progressista e partecipativo, sia seguita la bonaccia e il ristagno.
La preoccupazione, però, sembra non interessare e movimentare sonni e sogni di potenti e governanti, men che meno dei rappresentanti che, vedendosi alieni da chi non ambisce alla rappresentanza, considerano compiuta la loro opera nel reciproco ignorarsi. Eppure, un problema c’è.
Escludendo o non contrastando quell’esclusione, certamente si limita l’eventualità di dover dare a quelle domande delle risposte all’interno delle prassi istituzionali. E ciò può far piacere a chi comanda. Ma non si può evitare che quegli stessi esclusi, in un modo o nell’altro, abbiamo comunque richieste e rivendicazioni da sostenere. Da qui, due sole strade sono possibili.
O si cerca di contenere pure quelle all’interno dei processi di rappresentanza, non consegnandole a semplici e sterili rappresentazioni di comodo, oppure si rischia che esse si facciano violente, per involuzione autonoma o per ricercata pratica di populisti senza scrupoli e demagogici apprendisti stregoni, come solo possono essere le espressioni rivendicative di un bisogno che non sa, o non vuole, organizzarsi e diventare forza.
Il problema è degli esclusi quanto degli escludenti, ma la responsabilità più grande sulla decisione di quale di quelle due strade scegliere e seguire è di chi ha possibilità maggiori di agire e determinare il corso degli eventi. E ovviamente, la scelta non è indifferente rispetto al risultato.