È a tutti noto casa dica l’articolo 27 della nostra Costituzione e ormai c’è poco da dilungarsi sulle condanne che sono state comminate all’Italia da parte della Corte di Strasburgo per le condizioni in cui versano le carceri nostrane. C’è piuttosto da augurarsi che l’attenzione, dal sovraffollamento, si concentri su altri aspetti obbligati per far si che il suddetto articolo venga pienamente rispettato.
In quest’ottica appare dunque apprezzabile il tentativo fatto da alcuni parlamentari provenienti da diversi schieramenti (Manconi, Bernardini, Lo Giudice), affinché anche in carcere venga garantita la possibilità di continuare ad usufruire di una dimensione affettiva finora negata. Benchè la dicitura prosaica di “stanze dell’amore” da prevedere all’interno del carcere non renda forse pienamente giustizia a quanto contemplato nel ddl, di sicuro ne esemplifica il senso e la necessità. La sfera emotiva è la prima ad essere colpita quando si deve scontare una pena detentiva, e al pari del sovraffollamento rappresenta, a detta dei proponenti, “trattamento disumano e degradante”.
L’attuale proposta prevede dunque delle modifiche sostanziali alla legge del “26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti” prevedendo l’istituzione di stanze ad hoc dove detenuti e detenute possano intrattenere rapporti affettivi senza essere sottoposti a controllo visivo, la possibilità di poter incontrare i propri cari una volta al mese e in uno spazio esterno del carcere per mezza giornata, permessi fino a 15 giorni per ogni semestre di carcerazione e telefonate più lunghe dei 10 minuti standard per coloro che hanno famigliari all’estero.
Problematica, quella delle telefonate, che tocca in particolar modo le donne straniere che hanno i propri figli all’estero. A sottolineare la questione, Daniela De Robert, nell’ambito dell’incontro tenutosi lo scorso venerdì presso Fandango, organizzato da Acat Italia con Rinsacita cristiana e Confronti e interamente dedicato alla detenzione al femminile, laddove l’aspetto legato all’emotività ha un ruolo preponderante, basti pensare alle presenza di bambini in carcere insieme alle madri o a donne in stato di gravidanza al momento dell’arresto.
Che la detenzione femminile necessiti di un’attenzione diversa è stato parere unanime da parte di tutti i relatori presenti e di quanti hanno preso la parola in chiusura di dibattito. La differenza di genere ha un suo peso insomma, sia fuori che dietro le mura di un carcere e a sottolineare questa differenza – ha ricordato Luisa Ravagnani, autrice insieme a Carlo Alberto Romano di Women in prison – ci hanno già pensato i tribunali di diversi paesi insistendo appunto sul lato emotivo della questione. Ad esempio la Corte di giustizia del Sudafrica, che con una sentenza emanata nel 2007 aveva stabilito come la carcerazione di una donna madre, arrecasse un danno all’intera collettività in quanto costringeva i figli a crescere da soli, o ancora un tribunale australiano, che nel 1996 con una sentenza storica davanti a due genitori detenuti, stabiliva che al di sopra di tutto doveva esserci il supremo interesse del minore, o più recentemente l’India dove era stata proposta la creazione di asili nido misti dentro il carcere per evitare situazioni di ghettizzazione.
Gli esempi potrebbero insomma essere tanti ma l’Italia sta sempre un passo indietro. Di Icam ( istituti a custodia attenuata per madri) al momento se ne contano solo tre su tutto il territorio nazionale, a confermarlo sempre nell’ambito del dibattito, Mauro Palma prossimo vice capo del Dap. Tuttavia questa è la direzione da seguire, unitamente, sostiene, ad un maggiore dialogo con il territorio, cosa che il Dap a partire da quest’anno si impegnerà a fare. I buoni propositi insomma non mancano, ma difficile sfuggire all’ultima provocazione, quella lanciata da Don Spriano, cappellano di Rebibbia da 25 anni, quando chiede, rivolto al pubblico “ Ma è davvero necessario il carcere?”