C’è stato un uomo politico e intellettuale italiano di metà Ottocento, Carlo Cattaneo (binomio frequente nel nostro amato Paese) che era convinto di una cosa che persuade anche me. Chi l’ama ha il dovere e l’impulso costante di mostrare tutti i suoi difetti in modo che se ne vergogni. Non procura amicizie questo atteggiamento ma è necessario se si vuol rendere un servizio agli italiani e aiutarli a uscire dalle crisi purtroppo frequenti che si succedono. Come quella attuale che, dal 2007, rende a tutti la vita più difficile.
Quanti sono i sopravvissuti ai grandi campi o lager di sterminio che hanno punteggiato l’Europa occupata tra il 1940 e il 1945 dalle truppe naziste, con i SS in testa? Circa trecento, molti quasi centenari.
Il campo di Auschwitz in Polonia, a pochi chilometri da Cracovia, è il primo dei tre lager sul posto concepiti dai nazisti per i prigionieri di guerra – il primo “carico” umano arrivò il 14 giugno del 1940 -e poi destinati a realizzare quella “soluzione finale della questione ebraica” decisa nella famigerata conferenza di Wansee. La “soluzione finale”, proprio in questo luogo, significò lo sterminio di 1.100.000 persone: il 90 per cento ebrei. Tra i 1.300.000 prigionieri che furono rinchiusi nel lager più grande del regime nazionalsocialista, tra il 1940 e il 1945, c’erano anche 140-150 mila polacchi, 33 mila rom, 15 mila sovietici e 25 mila persone di diverse nazionalità.
Ad Auschwitz è possibile vedere anche il primo forno crematorio dei prigionieri, messo in uso in occasione dei prigionieri con lo Zyclon B, il gas che era in grado di uccidere centinaia di persone in dieci-quindici minuti. All’ingresso si legge la scritta famosa in tedesco: “Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi” e il doppio recinto in filo spinato. Un pellegrinaggio silenzioso tra i blocchi porta a rivedere le baracche in cui vivevano gli ebrei spesso in condizioni disumane, spesso con 25 gradi sotto zero. E si incontrano i resti di vittime che potevano portare nel lager 25-30 kg di bagaglio: centinaia di paio di occhiali, migliaia di scarpe, quelle delle donne e dei bambini, le protesi degli invalidi, le valigie con nomi, dati e indirizzi fino ai capelli: tagliati e raccolti in sacchi enormi per poter essere rivenduti e utilizzati nelle fabbriche come imbottiture. A tre chilometri c’è Birkenau, un campo concepito per volontà di Himmler . I tedeschi in fuga hanno distrutto molto ma è rimasto in piedi il Blocco 6, la baracca dei bambini che potevano vivere soltanto se convincevano le SS che avevano almeno quindici anni e potevano essere utili per il lavoro.
Il 27 gennaio 1945 i soldati dell’Armata Rossa sovietica liberarono il campo tedesco di Auschwitz, ad ovest di Cracovia, nel Sud della Polonia, e le SS iniziarono l’evacuazione. Circa sessantamila prigionieri furono uccise in gran fretta nei giorni precedenti. Durante la marcia le SS spararono a quelli che, stremati, non ce la facevano più a camminare. Era gennaio e la temperatura era di molti gradi sottozero. Morirono in più di quindicimila. L’esercito sovietico trovò e liberò oltre settemila sopravvissuti, malati e moribondi. Si ritiene che a in quel lager siano stati deportati circa un milione e trecentomila persone tra il 1940 e il 1945 e di esse almeno un milione e centomila sono state assassinate.
Quest’anno, nel 2015, uscirà in Italia con l’editore Mursia il quinto, ultimo volume di una grande Storia della deportazione dal nostro Paese che è frutto di un lavoro collettivo diretto negli anni Ottanta da chi scrive nell’Università di Torino con l’aiuto di Brunello Mantelli.