Giovedì 1° gennaio la Corte di Cassazione, il massimo organo giudiziario egiziano, ha ordinato un nuovo processo per Mohamed Fahmy, Peter Greste e Baher Mohamed, i tre giornalisti di Al Jazeera arrestati il 29 dicembre 2013 e condannati il 23 giugno 2014 a sette anni di carcere, più altri tre anni per Mohamed, colpevole anche di aver raccolto come souvenir la cartuccia di un proiettile.
La Corte, pur non potendo annullare le accuse, ha rilevato irregolarità procedurali nel processo al termine del quale i tre imputati erano stati giudicati colpevoli di diffusione di notizie false, possesso di attrezzature senza permesso e assistenza alla Fratellanza musulmana. In attesa del nuovo processo, purtroppo, i tre giornalisti di Al-Jazeera resteranno in carcere. Tra l’altro, Fahmy è in cattive condizioni di salute dopo essere stato operato, durante la detenzione, per una frattura al braccio destro e ha contratto l’epatite C.
Amnesty International considera Fahmy, Greste e Mohamed prigionieri di coscienza e le organizzazioni per la libertà di stampa ritengono che non avrebbero dovuto trascorrere neanche un’ora in carcere. Ricordiamo che nelle 12 udienze in cui si è svolto il processo originale, la pubblica accusa non è mai stata in grado di dimostrare le accuse nei confronti dei tre imputati e ha ostacolato i tentativi degli avvocati difensori di contestare le prove. Non è mancato neanche un tentativo di estorsione, quando l’avvocato di Fahmy si è visto chiedere 1.200.000 lire egiziane per poter visionare un filmato trattenuto dalla procura.
In aula, i testimoni dell’accusa sono caduti in contraddizione rispetto alle dichiarazioni scritte rese all’inizio dell’inchiesta. Gli esperti convocati dalla pubblica accusa non hanno saputo dire quali immagini fossero state alterate o quali attrezzature fossero prive di permesso. Nella sentenza di 57 pagine si può anche leggere il pregevole argomento giuridico secondo cui i tre giornalisti di Al Jazeera sono stati aiutati dal diavolo.
I tempi del nuovo processo potrebbero essere lunghi. A meno che non intervenga il presidente Abdel Fattah al-Sisi, che il 20 novembre in un’intervista a France 24, aveva ventilato l’ipotesi di una grazia in nome degli “interessi nazionali”.