Avevo messo da parte un breve sondaggio Swg pubblicato tempo prima da «il Venerdì di Repubblica»: La Rai tagli gli sprechi, ma non le News. Indagava sulla proposta del Direttore generale Gubitosi, tesa a unificare e ridurre i telegiornali. Una sorta di riforma che, in attesa di una governance ancora misteriosa, accentra poteri decisionali, «razionalizza» l’offerta e riduce le edizioni, ma che ha già scatenato polemiche e scioperi nelle redazioni e che pone più problemi di quanti suppone di risolvere. I risultati mi sono sembrati una vera e propria metafora della tendenza politica dei nostri tempi. Sommando, infatti, le risposte date a due diverse domande, ben il 45% degli intervistati ha affermato che l’accorpamento dei Tg e la centralizzazione della direzione «… faranno soffrire l’informazione, la sua qualità e il… suo pluralismo». Dunque, secondo questo campione il pluralismo soffrirebbe per via dell’accentramento delle decisioni. Una conclusione che mi ha fatto divagare.
Il pluralismo
Com’è noto, il pluralismo politico è un pensiero che critica un unico centro di potere. Promosso dalle democrazie liberali occidentali contro lo Stato centrale totalitario e pianificatore. Difeso sin dentro la nostra Costituzione dal cattolicesimo sociale e democratico, a sostegno dei corpi intermedi tra Stato e società, delle libertà personali, delle comunità autonome e sussidiarie nei confronti dello Stato. Teorizzato dall’«individualismo metodologico», per il quale non esistono collettivi, gruppi, comunità, ma solo libere azioni e individui con i loro animal spirit. Ridotto all’osso, il pluralismo chiede rispetto delle diversità e non vuole interferenze, specie se provengono dallo Stato. Quando il pluralismo non si trasforma in relativismo anarchico e in particolarismo autoreferenziale e chiuso, quando non radicalizza le differenze attraverso fondamentalismi manichei – di quelli tragici del fanatismo religioso ne sappiamo qualcosa – ma, soprattutto, quando è consapevole che esistono gruppi di interessi economici forti, ebbene il pluralismo è ancora oggi una categoria utile non solo alla democrazia ma anche all’economia di mercato. Ci educa al dialogo con «l’altro», coltiva rispetto, promuove iniziative. Basta, tuttavia, non dimenticare che sono stati proprio alcuni suoi teorici ad avvertirci che bisogna saperlo utilizzare. Nelle analisi non vanno infatti mescolati le classi sociali disuguali, i ricchi e i poveri, le lobby e gli indifesi, le élite del potere, per non fare l’errore di mettere nello stesso calderone le capre e i cavoli. Il suo uso nel contesto radiotelevisivo si è invece diffuso, in particolare in Italia, attorno agli anni ’70, in regime di monopolio pubblico e di scarsità di strumenti di comunicazione sociale, per entrare nei quali bisognava necessariamente «… chiedere permesso». La famosa legge Mammì del 1990 – definita legge Berlusconi –, che consacrò con un colpo di governo il duopolio pubblico-privato, lo ha poi disatteso. Un duopolio oggi superato dallo sviluppo tecnologico che ha messo a disposizione centinaia di canali tv di terra, di cielo e di cavo, dove ora si può entrare senza bussare e «… senza chiedere permesso».
Pluralismo e pluralismi
Se l’essenza del pluralismo consiste nel riconoscimento e nel rispetto di reali differenze e della loro autonomia, bisogna allora sottolineare che ai nostri giorni c’è pluralismo e pluralismo. E, cioè, c’è un pluralismo sano, quello che incarna una varietà di differenze reali, culturali, religiose, progetti di società, di poteri orizzontali. Un pluralismo che opera nelle autonomie e nei «mondi vitali», mai contro lo Stato e il bene comune ma a favore dello Stato e del bene di tutti. E c’è un pluralismo finto, quello dei frammenti e della «liquidarietà», che disattende la solidarietà, che crea illusorie idee di Stato e palingenesi, che moltiplica e crea identità fittizie, fotocopie di altre realtà, luoghi geografici ed etnie inesistenti. Un pluralismo narciso che si rispecchia nel proprio limitato laghetto. Quello in Italia, per esempio, delle pianure territoriali inventate. Oppure, delle liste elettorali à gogo di partiti, partitini personali e stracittadini: differenze virtuali che giustificano il bipolarismo se non il bipartitismo. Ebbene, nonostante questa distinzione, non si fa fatica a registrare che la generale tendenza dei nostri giorni è quella di svalutare non solo l’uso sociologico del termine – basti pensare alla scomparsa nel linguaggio socio-politico delle classi sociali, dei disoccupati e degli occupati, alla rimozione dei poveri e dei ceti non più medi, oltre a quel 10% di famiglie italiane che detengono il 50% della ricchezza nazionale – ma anche quello politico ed economico. Quando, infatti, derubrichiamo il primato dei partiti rappresentati nel Parlamento, luogo principe del pluralismo, è il momento in cui delegittimiamo il Parlamento stesso confondendolo, ad arte, con il parlamentarismo. Nel contempo, per la svalutazione del pluralismo economico ci stanno pensando gli uffici-studio delle potenti corporation multinazionali, che investono enormi capitali in ricerca, concentrano ingenti quantità di dati e posseggono vagoni di conoscenze per programmare indisturbate il futuro dell’economia planetaria.
La Rai e il centralismo
Andiamo alla Rai. La riforma proposta da Gubitosi negli «anni digitali» parte dalla necessità di «razionalizzare» e modernizzare l’offerta informativa. Certamente ripetitiva, sicuramente sprecona nell’uso delle risorse. Orti, orticelli e piantine curati gelosamente in proprio o appaltati all’esterno, senza sinergie. Con un occhio adrenalinico all’Auditel, non solo per la quota di pubblicità permessa ma anche per la vanagloria degli autori. E con sperpero di denaro. È una riforma, dunque, che si presenta necessaria, ma che pone interrogativi. Primo fra tutti, i licenziamenti che nell’economically correctly si preferisce mimetizzare sotto la voce «razionalizzazione». E, in secondo luogo, sui «contrappesi» necessari, per equilibrare la prevista direzione centrale unica dell’informazione. Il piano prevede, infatti, l’accorpamento delle sette attuali testate giornalistiche – ognuna fino a oggi con un proprio autonomo direttore responsabile – riducendole a due: una per le News e una per lo Sport. E, nelle intenzioni, si arriverà a eliminare i doppioni e la pletora degli attuali direttori e vicedirettori, conducendo poi l’intera informazione sotto la supervisione di un solo direttore, controllore di tutte le edizioni. Queste ultime, per altro, da ridursi drasticamente. Una supercentralizzazione, come si vede, molto discutibile quando azzera le sfere autonome delle responsabilità professionali e molto fuorviante quando prende a modello l’anglosassone e storica Bbc. Va invece ricordato che, quindici anni prima della «Legge Berlusconi» del 1990 – passata con un voto di fiducia dopo le dimissioni di cinque ministri della Sinistra democristiana, che legittimò il monopolio televisivo privato – la Riforma Rai del 1975, quella con la famosa Legge 103 degli «anni analogici», è stata, nonostante tutto, un’altra cosa. Onestà vuole che sia citata come legge innovativa sia sotto l’aspetto istituzionale sia sotto quello culturale e creativo. Il pluralismo aleggiava nei suoi diversi articoli e, al suo interno, si leggeva un’organizzazione aziendale delegata nelle responsabilità. Poi, in tempi di «bipartitismo imperfetto», di centro-sinistra – e con l’aria di «compromessi storici» che tirava – è successo che Dc e Psi prima e, successivamente, Pci hanno miscelato il «… diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero» con l’occupazione partitica di reti, testate e strutture del Servizio pubblico. Hanno, cioè, «tradotto» il pluralismo culturale con quello politico e ideologico. E quest’ultimo con quello partitico rigidamente lottizzato. Più che il pluralismo culturale o politico, si è toccato con mano il potere della «Repubblica dei partiti» di Pietro Scoppola. Rimaniamo ora in attesa, secondo Gubitosi, di azzerare dopo 40 anni la lottizzazione. Un’impresa titanica, dal momento che essa è nel Dna della Rai anche come naturale Weltanschauung dei suoi operatori. Un’azienda addirittura «infiltrata» da uomini della concorrente Fininvest durante i governi Berlusconi. E che, con un superdirettore centrale unico dell’informazione, può addirittura acquistare aspetti monocratici inquietanti, poiché sarà proprio questo superdirettore unico che stimolerà nuovi appetiti lottizzatori.
La metafora e il suo paradosso
Dicevo all’inizio che la proposta Gubitosi ha suggerito una metafora. Si collega, infatti, all’aria di centralismo politico decisionista che respiriamo non da oggi in Italia, sotto forma di populismo carismatico-mediatico. Mascherato da governabilità e rapidità, caratterizzato da ripetute «fiducie» senza dibattito, dalle semplificazioni di centri di potere periferici, dal silenzio di tomba del partito che appoggia il premier ecc. Richiesto e atteso in Italia dall’opinione pubblica disamorata dalla politica, il più adatto – si afferma – a fare una serie di riforme sempre rimandate. In ogni caso, brodo di coltura di auspicati presidenzialismi. Tale centralismo decisionista preoccupa, perché squilibra la democrazia orizzontale partecipativa che abbiamo conosciuto dal 1948 a oggi, togliendo autonomia, ruolo e funzioni ai corpi intermedi e rendendoli inutili, come ha già fatto per il partito politico e come sta facendo con i sindacati assieme alla loro concertazione. Emerge, a questo punto, un vero e proprio paradosso, che riguarda l’opportunità della decisione centrale per almeno tre emergenze del nostro tempo: respingere, sulla base dell’universalità dei diritti umani, la forza centrifuga dei localismi secessionisti, arcaici e tribali, di terra, sangue e lingua, presenti non solo in Italia; rispondere con più Europa alle diseguaglianze crescenti e alla crisi economica le cui origini sono sovranazionali; sopperire alle carenze di un decentramento di poteri che in Italia ha creato burocrazie e illegalità oltre a favorire un regionalismo che fa acqua da tutte le parti, iniziando dal settore sanitario e arrivando alla civic community. Decisionismo come esigenza, dunque? Una volta bene inteso, non si può escludere, purché rispetti il pluralismo e abbia l’accortezza di evitare uno Stato massimo problem solvingcome risposta allo Stato minimo fallimentare. E purché si prendano le distanze dal decisionismo come cultura politica monocratica permanente: la Germania del dopo Weimar ha fatto questo tragico errore! Decisionismo e centralismo, allora, come gioco di squadra e non come gioco di un solista. Evitando di confondere, in una cornice di garanzie forti, lo Stato con lo statalismo e la decisione con il decisionismo. Con una preghiera: quella di smetterla di rincorrere un leader forte, «uomo della provvidenza» dotato di carisma e possibilmente «unto» che, ormai sulla bocca di incauti opinionisti e di una classe politica sbandata, si sa come comincia ma non come finisce. Non è di un leader forte e carismatico che abbiamo in questo momento bisogno ma, caso mai, di tanti leader capaci e validi.
Il partito politico, naturale contrappeso del decisionismo
L’ultimo punto in agenda riguarda il partito politico. C’è infatti da chiedersi se il vento decisionista che spira non sia per caso nei suoi effetti imprevisti quello che uccide e rende, alla lunga, inutile il partito di iscritti e militanti trasformandolo, come ormai si afferma, in comitato elettorale e in partito di votanti, però lasciando in vita solo il suo segretario-premier, in contatto diretto con gli elettori. Sepolto quello di massa, si sta infatti, da un po’ di tempo, recitando il De profundis del partito-organizzazione-territorio, accompagnato dall’enfasi sulla democrazia diretta, sul partito liquido, che passa attraverso l’agorà telematica cinguettante di popolo, l’uso della democrazia 2.0, il partito e la «democrazia del pubblico», la «sondaggiologia», la telepolitica, il marketing ecc. Sulle primarie, osannate ma ammazza partito, come in Usa, è meglio sorvolare. Una dipartita favorita dal finanziamento privato, dal monocameralismo, dai nuovi regolamenti della Camera per leggi superveloci mirate ad evitare l’ostruzionismo e dalle elezioni indirette di secondo livello anche per un istituto centrale alle democrazie, come il Senato. Nasce il sospetto che, una volta benedetto il diritto della maggioranza a governare con il segretario-premier del partito che ha vinto primarie ed elezioni – anche quando vinte con una minoranza dei cittadini votanti –, si possa indirizzare il suo accresciuto potere per annullare il suo stesso partito politico e mortificare il pluralismo parlamentare, disattendendo le voci del dissenso. Non si fa molta fatica ad affermare che, in queste condizioni, è la democrazia senza aggettivi che arretra. Maggioritaria o meno, rappresentativa, parlamentare o deliberativa che sia. Diventando un’altra cosa su cui mi pare che, presi come siamo dall’euforia sulla democrazia iperpersonalizzata, verticale e delegata a un buon comunicatore, manchino da parte degli studiosi e opinionisti martellanti riflessioni. In questa resa incondizionata del «pensare politicamente», rimane invece incontrovertibile la constatazione che, in assenza degli Stati Uniti d’Europa, questo progressivo arretramento della mano visibile della politica e dei partiti politici consolidi sempre di più il primato della mano invisibile e indisturbata del capitalismo finanziario globale, Wall Street e dintorni, e di quella centralizzata delle banche di speculazione, su cui suggerisco di riflettere con gli editoriali di Guido Rossi su «Il Sole 24 Ore» della domenica.
Conclusioni
Chi, come me, scommette nel corpo democratico sano del nostro paese è anche scettico sulle derive autoritarie, ma teme invece molto la disattenzione e il disinteresse con cui stiamo incautamente accompagnando le «varie» Repubbliche italiane. I segnali di una crisi della democrazia ci sono tutti. E il partito agonizzante ne è la cifra. Bisogna, allora, rimanere molto vigili sulla strada che si sta imboccando, su quel decisionismo delegato sottotraccia che sta mettendo radici, interpretato qualche volta da commedianti e comici. Sapendo anche che, spesso, il più saggio percorso tra due punti non è la retta, che risulta valida su un universo euclideo piano e lineare, mentre il nostro è invece sferico e complesso, pieno di insidie ed esitazioni, di inciampi, di curve pericolose che suggeriscono di rallentare il percorso e di «… pensare prima di agire». E, quando si sceglie la retta con la scusa della rapidità della decisione, occorrono robusti contrappesi istituzionali, che finora non si sono visti. C’è poi l’esigenza di tutelare le libertà di espressione di diversi punti di vista, gli equilibri tra centro e periferia, le dinamiche sussidiarie, il Welfare e lo Stato sociale con il suo postulato del lavoro. E c’è, infine, il desiderio di praticare il più possibile decisioni collegiali, su cui anche la Chiesa di Bergoglio si muove con risolutezza. Nel momento in cui cresce la sfiducia verso la politica e si diffondono incertezze sul futuro che ci attende con tutte le sue rivoluzioni etiche e antropologiche, dovremmo allora essere molto cauti sulla delega a un premier decisionista. Da soli non si è mai scalata una montagna difficile. Meglio fare cordate. Evitando, in conclusione, di spingere agli estremi l’analogia Rai, non si può comunque escludere che, se non stiamo attenti, alla fine dei generali processi riformatori ci potremmo trovare di fronte a un centralismo non più democratico ma monocratico. E a una democrazia sicuramente più snella e veloce, forse meno costosa, formata da un minore numero di rappresentanti, monocamerale e monodiretta dall’unico leader della filiera primariepartito-governo. Con enormi probabilità di eleggere il Presidente super partes, se nel frattempo non ci troveremo di fronte a un «semipresidente» di parte. Ma, una volta reso incomprensibilmente obsoleto il gioco di squadra e snaturato il significato originario e nobile delle correnti di partito e del pluralismo, una volta affidata la polis al decisore buon comunicatore di turno, resta il grave dubbio se la democrazia che ci attende sia quella rappresentata da un «Bonaparte 2.0». Meglio, come dicevo, se unto e dotato di carisma. Un passaggio indolore dal pluralismo al bipolarismo e dal bipolarismo al monismo? Valutiamo la domanda come pura e semplice divagazione autunnale.
* pubblicato sul n° di dicembre della rivista “Appunti di cultura politica”.