Mohammad ha settantasei anni e un paio di scarpe nuove. Scarpe fiammanti da ginnastica, verdi e gialle. I suoi piedi stanno comodi, finalmente. Mohammad e sua moglie vengono dall’Afghanistan, sono arrivati in Europa a piedi, hanno camminato per sei mesi. Li incontro a Patrasso, Grecia. Come loro altre migliaia di persone hanno percorso e sono ancora in marcia sulla stessa rotta. Mohammad e sua moglie sono stanchi, si sono fermati, le loro figlie hanno proseguito il viaggio e ora sono in Germania.
Mohammad e la sua famiglia sono stati costretti a lasciare il loro paese. I talebani volevano prendersi le sue figlie. La primogenita l’hanno tormentata a lungo e alla fine si è uccisa. Amina piange mentre racconta di sua figlia e il dolore le stringe la gola.
Come loro altre migliaia, scappano dalla violenza integralista dei talebani. È la stessa violenza che oggi terrorizza l’occidente, la stessa motivazione di chi a Parigi ha fatto strage e a Raqqa giustizia gli adolescenti che guardano la partita in tv.
Yassin racconta della sua fuga mentre cammina svelto lungo la massicciata della ferrovia che taglia la campagna di Eidomeni. È giovane Yassin, ha camminato per quattro mesi ed ha già raggiunto la Macedonia. Il suo obiettivo è Copenhagen, Danimarca. C’è ancora molta strada da fare. La famiglia di Yassin è stata sterminata dai talebani. Lui è in fuga assieme ad un pugno di amici. Si ferma a guardare l’orizzonte e indica un punto all’orizzonte, una macchia nera in mezzo alla campagna sfocata dalla nebbia. “The jungle” dice, la giungla, è dove sono diretti. La giungla è una piccola foresta a ridosso del confine macedone dove si nascondono gli afgani. Sono centinaia accampati qui da mesi. Yassin e i suoi amici hanno passato il confine più volte e ogni volta sono stati presi dalla polizia e respinti in grecia. “Deported”, deportati dice Yassin.
La giungla è piena di bambini. Mohammad ha due anni e mezzo. L’ultimo mese di vita lo ha passato dormendo in una capanna tra questi alberi. Soffia bolle di sapone che volano ovunque e rendono ancora più surreale lo scenario. C’è una donna che si sente male, perde sangue. La soccorrono i volontari di Medici del mondo che da qualche giorno si occupano degli abitanti della giungla. La donna piange e si dispera. Dovrebbe andare in ospedale, ma è terrorizzata all’idea di separarsi e di perdersi. Gli altri potrebbero passare il confine, oppure potrebbe arrivare la polizia macedone che ogni tanto sconfina e viene a cacciarli via “a calci” come raccontano in molti. Oppure semplicemente potrebbero portarla ad Atene, in un centro di accoglienza dove la legge dice debbano rimanere fino a 18 mesi.
Dopo aver percorso 5300 chilometri a piedi, è diventato facile perdersi in terra d’Europa.
Vassilis li ha cominciati a vedere qualche mese fa. Gruppi di quindici, venti persone con l’essenziale nei bagagli portati a spalla. Abita a Polycastro Vassilis, accanto alla ferrovia. Li ha visti camminare sui binari e poi è andato a cercarli. Ha trovato la giungla e ormai da mesi da una mano, tutti i giorni. “L’Europa deve intervenire, è una vergogna questa indifferenza” dice arrabbiato, mentre sorregge quella donna che ha paura di andare in ospedale.
La giungla è come una Lampedusa di terra, un porto sicuro a ridosso della Macedonia, a metà strada dall’obiettivo. Ma è un luogo nascosto, un luogo freddo dove ci si ammala e si muore. In tre sono morti in pochi mesi, bambini e ragazzi di due, sette e quindici anni. Muoiono per andare in Europa sul confine che in realtà li fa uscire dall’Europa. La Macedonia non è nell’Unione Europea, devono attraversarla per proseguire. La rotta taglia Macedonia e Serbia fino all’Ungheria e da li poi si prosegue verso Germania, Svezia, Norvegia, Danimarca. “È una strada lunga”, dice Muhtar che ha diciassette anni e possiede solo i vestiti che indossa. Poi mi guarda e mi chiede se può farmi una domanda. “Non siamo terroristi, non siamo pericolosi. Lo sa la polizia, lo sanno tutti. Vogliamo solo attraversare i confini di paesi che non ci vogliono. È questa la domanda: se non ci vogliono perché non ci lasciano passare? Perché rendono tutto così difficile e doloroso?” Ha uno sguardo sereno e un tono di voce molto tranquillo. Io non ho una risposta.
I passi sulla massicciata si fanno sempre più svelti. Oltre il confine c’è un autobus che parte per Skopje alle 18 in punto. Yassin e i suoi amici vogliono prenderlo per andare oltre, come hanno fatto altri prima di loro. È buio e si vede dove si cammina solo grazie alle torce dei telefoni cellulari. Ma è tardi e bisogna accelerare. Sul fondo ballano le luci di alcuni palazzi. Mi aspetto un confine, una rete, un cancello. Qualcosa che divida fisicamente la Grecia dalla Macedonia, me lo aspetto guardato a vista dai militari. Invece non c’è niente. Niente che ti dica dove ti trovi e se sei autorizzato a starci. Neanche un cartello. Corro accanto a Yassin che respira faticosamente e mi spiega: “se non c’è polizia andiamo a Skopje, se mi prendono mi respingono in Grecia e dovrò ricominciare. Ma sono stanco. Non riesco più a correre e a camminare.”
Un istante dopo ci affianca una camionetta della polizia macedone. La corsa finisce in quel momento. E solo in quel momento si capisce dove siamo. “You are not in Europe.You are illegal migrant” mi dice un grosso poliziotto. Ci lasciano andare dopo sei ore. Yassin e gli altri invece restano in caserma. La Grecia non li accetta. Mi manda un messaggio in cui dice che vogliono portarlo in Bulgaria, mi chiede aiuto. Provo a chiamarlo ma il telefono risulta irraggiungibile. Non ho più notizie.
Il giorno dopo la giungla è ancora piena di bambini. Mohammad ha due anni e mezzo, soffia le sue bolle di sapone mentre si avvia insieme alla famiglia verso il confine. Si distrae e rimane indietro. Il padre lo chiama e lui gli corre incontro.
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