A poche ore dalla strage di Parigi a Charlie Hebdo, la leader del FrontNational Marine Le Pen ha dichiarato di voler reintrodurre la pena di morte attraverso un referendum se vincerà le elezioni nel 2017. In momenti come questi non si può non pensare a Riflessioni sulla pena di morte di Albert Camus. L’uomo che alla fine degli anni Cinquanta – quando in Francia la pena di morte veniva ancora applicata – credeva che il primo articolo del codice dell’Europa Unita dovesse essere la solenne abolizione della pena di morte perché: “Ognuno di noi, per quanto rispettabile, può contemplare l’eventualità di essere un giorno condannato a morte”.
Il pensatore franco-algerino racconta la nausea fisica, lo sgomento del padre dopo aver visto per la prima volta l’esecuzione di un uomo ad Algeri. Se prima di uscire di casa pensava che l’impiccaggione di quest’uomo – che aveva massacrato una famiglia e i suoi bambini – fosse una pena troppo mite, poi fu attanagliato dall’angoscia. “È evidente – commenta Albert Camus -che essa non è meno ripugnante del delitto e che questo nuovo assassinio, lungi dal riparare l’offesa inferta al corpo sociale, non può aggiungervi che fango”. Camus non trova differenze tra il metodo applicato dai nazisti che imbavagliavano gli ostaggi con bende imbevute di gesso per impedire che urlassero parole di libertà e la ghigliottina, che è di per sé un esempio rivoltante e con conseguenze imprevedibili poiché ” la sentenza capitale spezza l’unica solidarietà umana indiscutibile, la solidarietà contro la morte”.
Tra queste conseguenze in assoluto la più lontana dalla realtà è l’esemplarità del castigo. Oggi come in ogni tempo in cui la pena capitale è stata applicata, nessun omicida deciso a esserlo, ha mutato la sua volontà in base alla severità della pena: “Per secoli si è punito l’omicidio con la pena capitale – scrive Camus – eppure la razza di Caino non è scomparsa”, questa è la verità.
La paura della morte incide su uomini per natura non destinati all’omicidio, ma appare secondo Camus del tutto impotente rispetto a chi si sente innocente nel togliere la vita, verso chi lo fa all’improvviso in un moto d’impeto o verso colui in cui il desiderio di uccidere coinciderà con il desiderio di morire.
Appare quindi del tutto evidente l’ipocrisia di introdurre la pena di morte per la sua esemplarità. Del resto, La civilissima società cela ogni aspetto delle esecuzioni: “si perpetrano nel cortile delle prigioni davanti a un ristretto numero di esperti”, scriveva già Camus nelle sue riflessioni del 1957.
Una società carnefice che si rifiuta di uccidere pubblicamente, che nasconde gli occhi intrisi di angoscia, le mani supplichevoli del condannato, il suo corpo privo di vita dopo l’esecuzione, lo fa perché non si sente realmente autorizzata a uccidere, lo fa perché è conscia che la morte non può “intimidire l’uomo gettato nel delitto come si può esser gettati nella sventura”. Per questo lo scrittore chiede di chiamare la pena capitale con il suo vero nome: una vendetta.
Una legge antica come lo è l’uomo – occhio per occhio -, un sentimento privo di qualunque misericordia, di qualunque barlume di umanità. L’esecuzione capitale aggiunge inoltre alla morte disposta per vendetta anche quella che Camus chiama “una premeditazione pubblica e conosciuta dalla futura vittima”: il condannato per mesi, a volte per anni, vive la “tortura della speranza”, il tempo in cui il suo vivere si alterna tra il sogno della grazia e l’incubo della morte, privando l’uomo di ogni dignità, un senso di impotenza ben peggiore della pena stessa.
Con la pena di morte si uccide un essere umano e non è possibile affermare con certezza assoluta che nessuno tra gli uomini condannati sia recuperabile, o che tra loro non vi siano degli innocenti: “Non esistono giusti, ma soltanto animi più o meno sprovvisti di giustizia. Vivere, se non altro, ci permette di esserne coscienti e di aggiungere alla somma delle nostre azioni quel bene che compenserà, almeno in parte, il male che abbiamo seminato nel mondo. Questo diritto alla vita, che coincide con la possibilità di riscatto – scrive Albert Camus – è il diritto naturale di ogni uomo, persino del peggiore”.