Vorrei immediatamente precisare che queste parole sono rivolte esclusivamente agli italiani e non ai francesi, ai quali va tutta la mia solidarietà perché so che realmente e in ogni occasione difendono e hanno difeso la libertà di espressione. Mi si permetta di premettere, inoltre, che ciò che queste righe contengono potrebbe urtare la sensibilità di coloro che, in Italia, da poco più di una settimana, si sono scoperti, immagino non senza traumi, difensori della libertà di pensiero e di stampa. Vorrei rassicurarli sul fatto che per me i fatti di Parigi sono gravissimi e che mi hanno indignato, ma che ho scelto di affidare al silenzio il mio dolore e la mia rabbia, rifiutando hashtag che, a mio avviso, servono solo a sentirsi parte di un tutto confuso e contraddittorio oppure a costruirsi facilmente una coscienza.
Mi sia consentito, inoltre, di dire che per me duemila morti innocenti nel cuore della Nigeria, per mano di terroristi identici a quelli parigini, sono un fatto ancora più grave che avrebbe dovuto portare, più che l’immancabile quanto inutile hashtag, milioni di persone, capi di Stato, mass media, in piazza, se non nella nazione africana, quantomeno nelle strade di tutta Europa. Perché anche coloro che sono stati stuprati e massacrati avevano dei pensieri da esprimere e il diritto ad una vita libera da vivere. E sicuramente tra loro c’era anche chi scriveva, disegnava, discuteva di quel che accade nel mondo. Qualcuno, in nome di un Dio che non c’entra proprio nulla, ha fermato e distrutto tutto. Ma a noi non importa. Noi, che abbiamo bisogno di utilizzare ogni fatto come tassello di uno scontro tra civiltà, nonostante quelle civiltà convivano pacificamente nelle città del tanto amato Occidente, cosa possiamo farcene di un eccidio in una terra “incivile” e “lontana”?
Cosa possiamo farcene di quei morti “inutili” che non sanno aiutare la strategia di consenso o di affari delle forze politiche che si contendono il potere? Nulla. E allora siamo tutti Charlie Hebdo. Lo scriviamo ovunque, appendiamo le foto e le copertine sui muri dell’ufficio, in casa, per strada. Partecipiamo alle marce, ci teniamo per mano, alziamo le matite al cielo, ci stringiamo contro il “nemico” che ogni giorno diciamo di combattere, sempre uniti, sempre insieme, sempre votati a difendere la nostra libertà di pensiero e di stampa. Anche se poi magari facciamo il tifo per chi porta in Parlamento una legge sulla diffamazione, che somiglia più a un diktat contro la stampa indipendente, o per chi manda la polizia a manganellare i lavoratori che manifestano per un proprio diritto. Anche se parteggiamo per ex comici o ex pianisti da crociera che non hanno mai perso occasione per insultare i giornalisti che non la pensano come loro e per formulare editti o liste di proscrizione. Anche se continuiamo a idolatrare un leader che, in una telefonata, abbiamo sentito ridacchiare, insieme a un faccendiere, per il bavaglio messo a un giornalista che aveva rivolto una domanda sacrosanta sulla salute dei cittadini di Taranto.
Ma siamo tutti Charlie Hebdo. Tutti alfieri della libertà di pensiero, pronti a sbandierarlo in televisione, con la faccia buona e seria di chi sembra volerci convincere che per difendere quella libertà darebbe la vita, anche se poi, nel resto del suo tempo, plaude a chi epura dai partiti le minoranze o coloro che dissentono dal punto di vista del capo, da chi con arroganza dice “decido io” o “tiro dritto per la mia strada”. Ma siamo sempre tutti Charlie Hebdo. Anche quando pretendiamo che i musulmani si dissocino apertamente e stiamo tutti lì, con le orecchie tese, ad aspettare che ci sia qualche silenzio, che equivarrebbe in automatico ad essere dalla parte dei terroristi. E allora saremmo tutti pronti a partire con gli attacchi e le accuse che tirano in ballo la civiltà. Sinceramente non ho capito, tra l’altro, perché i musulmani debbano per forza dire che ovviamente condannano il terrorismo. Mi stupisce che la stessa cosa non venga chiesta, ad esempio, agli ebrei ogni volta che Israele compie eccidi a Gaza e in Palestina. Si tratta di terrorismo anche in quel caso, per di più commesso da uno Stato sovrano e non da gruppi di folli fanatici che con la religione c’entrano solo di striscio.
A me che i musulmani (almeno i tanti che conosco io) siano persone pacifiche e contrarie al terrorismo è cosa risaputa e non comprendo perché dovrebbero ripetermelo di fronte a un gruppetto di assassini che decidono di seminare morte nella capitale di uno Stato europeo. Che i miei amici con i combattenti dell’IS non c’entrino proprio nulla, per me è tautologico. Sarebbe come se avessero dovuto chiedere a tutti noi siciliani, anche a quelli che la mafia l’hanno sempre combattuta, di dissociarci ogni volta che veniva compiuta una strage o un omicidio mafioso. Personalmente mi sarei risentito e non avrei nemmeno risposto, visto che la “dissociazione” dalla mafia l’ho messa in atto nel mio quotidiano e nelle mie scelte. Quello che è accaduto a Parigi con la religione non ha nulla a che fare. Ecco perché ai miei amici musulmani preferirei chiedere altro.
Chiederei, come ho sempre fatto durante le nostre chiacchierate, di spiegarmi cosa pensano dell’integralismo che milioni di persone eleggono come guida delle loro vite e dei loro contesti sociali. Vorrei sapere cosa pensano degli adulteri, degli omosessuali, della libertà sessuale delle donne, di paesi come Iran o Arabia Saudita, della laicità dello Stato. Sono quelle le risposte che fanno sì che ci si conosca davvero, ci si capisca e ci si confronti. Molte risposte mi sono state date e le contraddizioni sono tante: c’è chi non vuole dissociarsi da certe brutture dogmatiche e c’è chi invece, da musulmano, in alcuni paesi africani, ha combattuto contro gli integralisti per difendere la libertà e i diritti delle donne. La stessa domanda, sia ben chiaro, vale anche per le altre religioni, compresa quella cattolica, i cui dogmi producono effetti negativi sulla vita, fisica e psicologica, di milioni di persone. Specifico che mi riferisco alla religione e non alla fede, che molto più spesso è invece respiro di libertà.
Ho visto troppa retorica ipocrita in questi giorni di dolore e poca, pochissima riflessione, fatta eccezione per alcuni punti di vista che ho avuto il piacere di leggere. Una retorica appiccicosa che sembrava guardarti male per il tuo silenzio e il tuo rifiuto di partecipare. Ho avuto l’impressione che se io, pur condannando fermamente l’atroce atto terroristico di Parigi (così come quello recente di Peshawar o quello compiuto da Boko Haram a Baga), avessi detto apertamente di non essere Charlie Hebdo, sarei stato tacciato di complicità morale con il terrorismo. Oggi, passato qualche giorno dall’emotività, forse posso spiegare che a me, pur da non credente, molte vignette di Charlie Hebdo non piacevano affatto e che non le trovavo neppure utili. È la satira, lo so, e so che deve essere spietata e libera di esprimersi. Giusto. Ci mancherebbe il contrario ed è inaccettabile che il risentimento si esprima con sangue e violenza. Basta non comprare quel giornale.
Ma per lo stesso principio di libertà, credo di poter dire che l’insulto gratuito a qualcosa che riguarda la sfera intima delle persone (e il credo ne è parte) possa non piacermi e apparirmi volgare, insensato e inutile allo stesso modo in cui lo sono le ingerenze delle religioni nelle società dell’intero globo. Rigetto sia le une che le altre, credo di averne il diritto senza che per ciò mi si accusi di essere un filo-terrorista (un infedele forse sì, ma la cosa non mi preoccupa). All’insulto gratuito preferisco la libertà di dissacrare con intelligenza ciò che sembra intoccabile, nel deridere anche ciò che appare più serio, senza però scadere nel torbido. A volte ho l’impressione che ci siamo abituati a confondere la libertà di espressione con il diritto di insultare. Credo che l’ironia e il sarcasmo, figure più nobili dell’insulto, riescano ad essere ingredienti fortissimi e perfino più efficaci, anche dentro una vignetta satirica.
Certo, dall’altra parte dello steccato si incazzerebbero lo stesso, perché chi sta dalla parte di chi massacra duemila persone o un gruppo di vignettisti non ha certo senso dell’humour o intelligenza, ma la nostra lezione di libertà sarebbe probabilmente più comprensibile. E forse ci accorgeremmo anche degli altri, iniziando a confrontarci e a ragionare al di fuori di un hashtag o di una convenzione emotiva. Altrimenti meglio il silenzio. Che a volte è anche più rispettoso e sensato.