I terroristi si muovono da una posizione di dissenso ed odio verso l’altro, sfruttando la psicologia della comunicazione per produrre effetti devastanti, quali paura, angoscia, inibizione sociale, incremento del disagio esistenziale e sociale: nel terrorismo c’è una forte componente psicologica. Come ottengono effetti di tale portata? Il terrorismo utilizza i mezzi di comunicazione per generare terrore nella popolazione: è un modo di comunicare strumentale.
Gli atti terroristici non sono compiuti tanto per quello che realizzano in sé, per gli effetti che provocano, per il numero di vittime, quanto perché i media li utilizzino come notizia di rilievo e si trasformino in cassa di risonanza per propagandarne l’ideologia. Attraverso i media il terrorismo assume una portata non reale, ma amplificata.
I nuovi media sono, inoltre, in grado di raggiungere ogni parte del mondo, veicolando immagini e messaggi di terrore, conferendo loro teatralità e visibilità, attraverso la spettacolarizzazione dei contenuti. Ogni nuovo attentato diviene parte del nostro vissuto quotidiano. Così, gli strumenti di informazione, considerati sinonimo di libertà e democrazia, diventano la principale arma nelle mani dei terroristi per diffondere le proprie ideologie e per destabilizzare le altre società.
L’atto terroristico, attraverso il ricorso ad azioni ad elevato contenuto emozionale permette di alimentare il senso di impotenza e di insicurezza. Fa leva sulle vulnerabilità legate al soddisfacimento dei fabbisogni primari, quali la sopravvivenza e la sicurezza, in modo che la popolazione percepisca la propria fragilità e la concreta minaccia della propria incolumità. Le immagini di morte colpiscono l’emotività dello spettatore tanto più forte, quanto maggiore è l’immedesimazione, più reale l’idea del “poteva capitare anche a me”. Crea delle vittime emotive attraverso l’impatto psicologico del terrore, il dolore degli altri diventa la nostra angoscia.
Con il terrorismo vengono prodotte nuove paure, vengono amplificate quelle preesistenti, viene alimentata l’intolleranza verso gli estranei ed i diversi. È un crollo di certezze e di sicurezze che incrina l’equilibrio psicologico e produce un’enorme insicurezza collettiva. La paura psicologicamente è un sentimento che ci difende dal pericolo, permette l’attivarsi di meccanismi di difesa e di problem solving. Quando dalla paura, a causa di una mancata elaborazione razionale, si passa al terrore e all’angoscia, si rimane paralizzati e sottomessi.
Obiettivo finale del terrorismo è indurre angoscia collettiva per diminuire la libertà dei cittadini.
Da un punto di vista sociale, un evento di tale portata emotiva, fa crescere la distanza tra i gruppi, occidentali/cristiani da un lato e musulmani dall’altro, e allo stesso tempo favorisce il rafforzamento del proprio gruppo di appartenenza (noi) in opposizione al gruppo altro, diverso da noi (loro). Nel senso che sia occidentali che musulmani si stringono ognuno nel proprio gruppo di appartenenza e vedono gli altri come contrapposti, più distanti, più negativi, uniformati (“sono tutti uguali”, massimizzando le somiglianze tra i soggetti dell’outgroup) e diversi, percependo se stessi come migliori (Tajfel, SIT, 1974).
In questo modo, però, si crea una generalizzazione e l’altro gruppo viene identificato come “il nemico” da combattere. Le generalizzazioni sono alla base dei pregiudizi, stereotipi e di credenze sbagliate, cristallizzate e diventano un filtro che impedisce di elaborare la realtà nella sua specificità. I pregiudizi sono dei giudizi emessi in assenza di dati sufficienti che l’essere umano utilizza per economia cognitiva e semplificazione della realtà complessa e proprio per questo non corrispondono alla realtà oggettiva. Non abbiamo esperienza di tutti i musulmani per definirli terroristi e per averne paura solo perchè un sottogruppo della loro cultura agisce con violenza in nome del loro credo. Un altro concetto psicologico visibile è l’euristica della salienza, un’altra strategia di economia cognitiva attraverso cui si tende a stimare la probabilità che si verifichi un evento sulla base della vividità e dell’impatto emotivo di un ricordo, piuttosto che sulla probabilità oggettiva che si realizzi, e da qui le recenti notizie sui falsi allarmi bomba, per valigie lasciate incustodite a Fiumicino, in seguito all’attacco terroristico al giornale Charlie Hebdo.
Si tende a fare distinzioni accurate per quanto concerne la propria cultura e il proprio gruppo di riferimento ma vengono semplificate le altre culture, associandole esclusivamente ad emozioni negative o distruttive. Queste convinzioni portano, però, a sovrageneralizzare e ad evidenziare solo gli indizi che giustificano questa credenza. Per questo motivo, molti civili musulmani in rappresentanza del loro popolo, discostandosi dal gruppo dei fondamentalisti religiosi, dichiarano al mondo intero che “I’m Muslim, not a terrorist” (Sono musulmano, non sono terrorista), in condanna agli attacchi al giornale parigino e in risposta all’identificazione avvenuta dal mondo occidentale con lo slogan solidale presente in questi ultimi giorni: “Je suis Charlie”.
Sostenere che “il mio Dio è migliore del tuo” non porta le due parti ad alcuna risoluzione, è un conflitto sterile, dai risvolti distruttivi, che mantiene lo status quo, la violenza, in cui si vuole semplicemente “avere ragione” e sostenere che il proprio gruppo sia migliore dell’altro sulla base degli ideali e valori religiosi, ma nessuno possiede il punto di vista per eccellenza, quello migliore degli altri. E questo tipo di conflitto, fanatico e violento, esiste sin dai tempi delle Crociate, combattute tra il XI secolo e il XIII secolo, in cui fondamentalmente il focus era lo stesso, ciò che cambia, forse è l’essere al passo con i tempi, sfruttando i mezzi messi a disposizione dalla scienza e tecnologia, per cui le notizie divengono virali e scorrono veloci in tutto il mondo, amplificandone la sua potenza.
La complessità di questo argomento non può essere esaurito in poche battute, ma vuole fornire ai lettori una prospettiva con spunti di riflessione.