Pubblichiamo la lettera del giornalista Nevio Casadio alla madre di Ilaria Alpi all’indomani della lettera con la quale, Luciana Alpi, chiede la chiusura del Premio.
Gentile Signora Luciana,
vengo a lei con umiltà e rispetto.
Non c’è dolore maggiore, per una madre e un padre di fronte alla tragedia della morte di un figlio.
Essere padre e madre di un figlio è un divenire incessante. Ora dopo ora, giorno dopo giorno. E così nei mesi e negli anni del cammino comune. A volte, per un destino maledettamente crudele, quel cammino comune si spezza. Non esiste atrocità maggiore, qual è il dolore per una madre e un padre sopravvivere alla morte di un figlio. Atroce ancor più quel divenire incessante terribilmente falciato da una morte sanguinaria e cruenta perpetrata da barbari assassini su Ilaria, giovane figlia. Giovane donna massacrata in un’esecuzione orribilmente vigliacca, mentre compiva la propria missione di cronista alla ricerca di verità e giustizia.
Lei e suo marito, Giorgio, da quel 20 marzo del 1994, intraprendeste con una reazione immediata ed umanamente sublime un nuovo cammino. Da quella tragedia, una battaglia quotidiana, per la ricerca di verità e giustizia, in un percorso al fianco del Premio Ilaria Alpi. Un vicendevole scambio di strette di mani e di intenti nel perseguire progetti comuni. In una serie cadenzate di iniziative concrete, nel nome di Ilaria. Nel segno di verità e giustizia. E per tenere bada all’oblio, in un paese che cancella la memoria come la neve al sole.
“Se hai una montagna di neve tienila all’ombra” scriveva Tito Balestra, un poeta dimenticato dai più, nato a Longiano ad un tiro di schioppo da Riccione, in Romagna. Riccione, accanto agli sfarzi delle luminarie dei luoghi effimeri e cult alla moda, della via Ceccarini gremita da giovani in cerca di nuove tendenze, in questi vent’anni attraverso il Premio Ilaria Alpi, ha conservato al riparo dell’ombra quella montagna di neve, nel suo candore. In memoria di Ilaria, registrando via via le tappe per pungolare i poteri preposti a verità e giustizia. Per impedire ancora la stagnazione di paludi che infangano e umiliano le persone perbene, da troppo tempo ormai. E per dare infine coraggio e speranza alla collettività, in particolare di giovani cronisti che nonostante tutto, tra mille difficoltà e tra l’indifferenza che sempre più attanaglia e annebbia le coscienze, ogni giorno si impegna. Ragazze e ragazzi testardamente “cronisti”, che ancora oggi resistono e credono in questo benedetto mestiere. Il nostro e il loro benedetto mestiere, che per alcuni di noi e costoro, mestiere non è, ma una sorta di missione. Per Ilaria, autenticamente profonda.
In questi vent’anni, gentile Signora Luciana, incontrandola al Premio Ilaria Alpi in Riccione, una moltitudine di persone ha cercato nel silenzio di una stretta di mano, di mostrarle vicinanza, solidarietà e affetto. E soprattutto la gratitudine per il vostro impegno, suo e di Giorgio. Impegno militante, pervicace e amoroso nella tenerezza di una madre e di un padre, che infondeva coraggio ai ragazzi arrivati da ogni parte d’Italia a Riccione, nel nome di Ilaria. Unitamente grati per i riflettori che illuminando Ilaria, illuminavano contemporaneamente quel giornalismo d’inchiesta italiano, messo dai più, giornali e tv, con frequenza crescente sotto il tappeto.
In questi ultimi vent’anni, in nome di Ilaria, Lei e il Premio ad Ilaria dedicato, avete determinato e sparso sussulti di dignità. Nel ricordo di Ilaria, avete promosso iniziative di sensibilizzazione, in definitiva rivolte alla civiltà. Condividendo l’opera benemerita e santa, spesso confinata nelle pieghe della cronaca, di persone sconosciute ai più o completamente dimenticate: le cui esistenze anch’esse di dignità estrema, hanno onorato il nostro paese.
Come dimenticare Saveria Antiochia? Conobbi Saveria Antiochia nel ‘96, un pomeriggio lontano di diciotto anni fa. Appena incontrai Saveria per un’intervista nel contesto di un’inchiesta di Zavoli sulla giustizia per Rai Uno (a quei tempi, forse qualcuno non ci crederà, ma Rai Uno produceva inchieste giornalistiche per trasmetterle in prima serata) le sue prime parole non lasciarono scampo: “Quando sparano ad un figlio sparano anche su di te. A me hanno sparato quel giorno”. Quel giorno, erano passati undici anni, fu il 6 agosto del 1985.
Roberto Antiochia, figlio di Saveria aveva 22 anni. Un ragazzo, entrato in Polizia poco più che un bambino, si trovò subito a combattere la criminalità, quella dura e spietata. Il credo di Roberto, giustizia e dignità, che perseguiva al servizio della squadra mobile di Palermo, lavorando fianco a fianco, con Beppe Montana.
Il poliziotto Beppe Montana, il 28 luglio dell’85, si trovava al mare con la fidanzata ed amici a Porticello, nel comune di Santa Flavia, nella provincia Palermo, fu freddato da una gragnuola di colpi sparati da due killer mafiosi che gli erano piombati alle spalle. Beppe, dirigente della Sezione Catturandi della Mobile di Palermo e stretto collaboratore del vice questore Ninni Cassarà, aveva 34 anni.
Nella prima settimana di agosto, Roberto Antiochia in ferie da giorni, decise di restare in servizio per proseguire le indagini al fianco di Ninni Cassarà. E il 6 di agosto, a Palermo, scortò il suo superiore fin sotto l’uscio di casa, in via della Croce Rossa. Appollaiato in un palazzo di fronte al palazzo di Cassarà – la moglie di Ninni alla finestra ad aspettare il marito – un commando vigliacco, di una decina di killers della cupola mafiosa, fece vomitare i kalashnikov su Ninni Cassarà e sul ragazzo, agente di scorta, Roberto Antiochia, figlio di Saveria.
Ninni, tra grumi di sangue, spirò tra le braccia della moglie. E Roberto sotto l’arcata di un portone. Entrambi abbattuti dalla mafia, in una strada di Palermo, in una giornata d ‘agosto. Da quel giorno la madre di Roberto, Saveria, donna fiera, risoluta, tenace, avvolta in quel suo alone di dolcezza materna, iniziò il suo viaggio in Italia, incontrando persone di ogni età, perlopiù ragazze e ragazzi, testimoniando dal nord al sud la fede del figlio, la legalità, per un’Italia civile, libera da mafie, barbarie e schiavitù. Un viaggio civile e laico, in memoria del giovane figlio, Roberto.
In quel nostro incontro per un’inchiesta televisiva, le parole di Saveria sarebbero poi riecheggiate dagli schermi televisivi, come le più decisive, espresse in quel suo volto pieno di dignità, attraversato da un dolore immenso. Le chiesi, cos’è la giustizia? “La giustizia non è una parola retorica, non è una figura retorica come la donna con la bilancia in mano. La giustizia è un diritto che è stato calpestato, abbiamo provato a pensare a tante cose ma noi vogliamo giustizia non vendetta, vogliamo verità e chiarezza”. Poi si interruppe. Una lunga pausa di silenzio. E concluse: “La giustizia è una parola terribile, come la verità”.
Tutti noi pretendiamo verità e giustizia. Per Ilaria e per tutte le vittime del mondo. Le persone perbene del nostro paese, pretendono verità e giustizie. E pretendono di vivere in un paese civile, che tuteli la dignità degli uni e degli altri. Ilaria ha dato la vita per raccontare le verità nascoste. I racconti di Ilaria.
“Il contrario di un racconto non è il silenzio o la meditazione, bensì l’oblio…”, afferma John Berger.
Si fermi l’oblio. Probabilmente sarebbe una piccola resa, l’ammaino di una bandiera in una manifestazione, il Premio Ilaria Alpi, che pur nei limiti di una manifestazione, ogni anno si prefigge da tempo principalmente di fermare l’oblio, nel segno di Ilaria.
“In questi vent’anni – lei afferma – sulla tragedia di Ilaria non sono emerse verità e giustizia. E per questo il Premio è inutile e deve essere chiuso”. Roberto Balzani, persona che molto stimo, condivide pubblicamente la sua proposta. L’ex sindaco di Forlì si dichiara d’accordo con lei “per rimuovere l’intestazione ad Ilaria da premi o da scuole di giornalismo, finché non saremo riusciti a venire a capo di quell’intreccio criminale d’interessi che ne decretò la brutale esecuzione”.
In psicoanalisi, la rimozione è un meccanismo psichico che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui che concernano la memoria, considerati inaccettabili e intollerabili dall’Io, e la cui presenza provocherebbe dispiacere. Spero che scuole e strade dedicate ad Ilaria continuino a mantenerne vivida la memoria ed il Premio continui ad esistere nel nome di Ilaria.
E personalmente auspico e spero che il Premio ritorni alle origini in quella sua missione ineludibile per cercare verità e giustizia. Ora più che mai. In nome di Ilaria, cui si ispirano i giornalisti d’inchiesta di qualsiasi età. Di qualsiasi media, carta stampata, web, radio e tv. Che il Premio, in un nuovo cammino, dovrebbe complessivamente ospitare e promuovere.
Considero, gentile Signora, il suo appello per chiudere il Premio, un sacrosanto e salutare ceffone a chi non vuol vedere e non vuol capire. Una provocazione, un cazzotto, un doloroso lamento di una madre che vuol riportare sui giusti binari una manifestazione in nome della figlia, che ha pagato con la propria vita quel senso di giustizia che dovrebbe appartenere a tutti noi.
Nelle serate riccionesi, guai a confondere il tappeto sobrio del Premio con un red carpet festaiolo.
Guai a dimenticare per strada l’obiettivo fondante in nome del quale il Premio fu istituito vent’anni fa.
Il pericolo di assistere, nelle giornate del Premio, ad iniziative ammiccanti ad una spettacolarità salottiera è in agguato. Ma queste mie perplessità o timori sbiadiscono avendo l’occasione poi, ad esempio, di trovarmi di fronte a Solange Lusiku Nsimire, la giornalista congolese che ha infuso a tutti noi nuove forze per continuare a resistere e a perseguire verità e giustizia, nonostante tutto. Lusiku, ospite del Premio della scorsa edizione, è tra le persone che hanno ereditato e stretto in mano con forza il testimone consegnato idealmente da Ilaria.
Sarebbe una comune sconfitta, l’oblio. In memoria di Ilaria e nei confronti di giornalisti, poliziotti o magistrati o quant’altri caduti e confinati in una spoon river sperduta e dolente. O nei confronti ancora di persone in vita, ingabbiate da morse schiaviste, serrate a tenaglia da criminali abietti o dalle maglie vischiose dell’indifferenza, della rassegnazione o ignavia, che a turno o insieme, tarpan le ali. E ci sono mille modi per tarpare le ali, precipitando così nell’oblio, a discapito di giustizia e verità. E a discapito infine della libertà di espressione, quasi si considerasse l’articolo 21 della Costituzione italiana un aggeggio arrugginito, di nessuna importanza.
Rimozioni e oblio in agguato sarebbero una sconfitta di tutti. Come di tutti noi è la sconfitta per non aver ottenuto giustizia e verità per Ilaria Alpi. Di fronte ad ogni vittima cui vengono negate verità e giustizia, dovrebbe indignarsi e vergognarsi l’intero paese.
Quella determinata vittima viene uccisa due volte, per mano della malvagità criminale e dai misteri dei diversi porti delle nebbie, dislocati in un paese di cui tutti noi siamo parte, senza alcuna attenuante.
Viva il racconto di Ilaria.
Con vicinanza, gratitudine e la dovuta stima
il suo Nevio Casadio