Ha scommesso tutto. E lo ha fatto non per conto personale ma a nome e per conto della sinistra, o meglio, del Partito Democratico. Prendere la segreteria del partito, prendere la guida del Paese, portare avanti le riforme. Costi quel che costi.
In quel “costi quel che costi” che cosa c’è? Vediamo un po’.
Il patto con Forza Italia, perché servono i voti degli azzurri.
La gestione diretta dell’opinione pubblica, scavalcando qualsiasi filtro. Parla in tv e sceglie dove andare. Quando risponde alle domande dei giornalisti sceglie nel mazzo, un po’ come Beppe Grillo. Risponde solo quando vuole e non ha un buon rapporto con la stampa. Che, al contrario, (non parlo dei giornalisti, o almeno non di tutti), ha un ottimo rapporto con lui. Di fronte ai suoi dati dell’osservatorio di Pavia, rispetto alla sua presenza in Tv, impallidisce anche il Berlusconi degli anni d’oro.
Compromette i rapporti con il sindacato. Non solo con la Cgil. La stampa titola sullo sciopero generale del 12 dicembre: “il sindacato è diviso”. Ed è un titolo sbagliato. Nell’ottobre del 2003 e nel novembre del 2004 si sono effettuati gli scioperi generali unitari contro le leggi finanziarie del Governo Berlusconi. Da quella data, eccetto alcuni scioperi unitari di categoria, Uil, Cisl e Ugl si sono mossi separatamente dalla Cgil. Il 12 dicembre in piazza ci saranno Cgil, Uil e Ugl. Forse il titolo giusto sarebbe stato “La Cisl è isolata”. Comunque è chiaro il distacco di Renzi dai movimenti sindacali. Alla base c’è la delegittimazione dei corpi intermedi. L’attacco ai sindacati è un colpo alla sinistra.
Nonostante tutto ciò, i rapporti con l’opinione pubblica si stanno indebolendo. Matteo Renzi, sebbene conservi un gradimento molto alto, comincia a perdere consensi. Di fronte a sé ha una unica possibilità: riuscire a portare in fondo il mandato che si è dato.
Le riforme Costituzionali, il Jobs Act, la legge elettorale.
Aveva anche un altro obiettivo: nel semestre europeo a guida italiana convincere Junker ad abbandonare la strada dell’Austerità e avviare quella dello sviluppo. I 315 miliardi che dovrebbero scaturire dai 21 investiti (che dovrebbero convincere ad attivare finanziamenti privati e di alcuni Stati per i 294 miliardi mancanti) sembrano cosa più vicina al sogno che alla realtà. Contemporaneamente l’operazione “recupero credibilità dell’Europa” portata avanti da Renzi si è scontrata con il ruolo di Junker uscito dall’inchiesta LuxLeaks.
Le ultime Regionali hanno portato ad una disaffezione dell’elettorato senza precedenti. Il Pd vince ma perde più di un milione di voti tra Calabria ed Emilia Romagna. Un chiaro segnale che non può essere liquidato come “questione secondaria”.
Il parlamentino del Pd, la direzione è preda di una maggioranza renziana ma anche di una minoranza che alza la voce e che influisce sui tempi delle riforme. Una minoranza che va tenuta d’occhio perché non acquisisce maggiori consensi tra i dirigenti del partito ma che, invece, comincia a trovare consensi nell’elettorato del Pd.
I dati sulla disoccupazione segnalano il numero più alto dal 1977 ad oggi. Prima non c’era il rilevamento del dato. Ed anche se il Governo si ripara dietro la notizia del saldo positivo dell’ultimo trimestre, il quadro resta assai fosco. Si perdono posti di lavoro “buoni” e se ne recuperano di “cattivi”.
Le dimissioni del Presidente della Repubblica, che arriveranno nel mese di gennaio, rappresentano un ulteriore ostacolo sul cammino del Premier. Renzi sa bene che se non porta a casa qualche risultato in tempi brevi ha un’unica possibilità, quella di andare presto al voto. Il compromesso raggiunto sull’Italicum non lo penalizza. Il fatto che entrerà in vigore solo nel momento in cui si supererà il bicameralismo perfetto, non impedisce a Renzi di andare al voto anticipato con la legge definita dalla sentenza della Consulta. Un unico ostacolo, su questo cammino. Un Presidente della Repubblica che decida di sciogliere le camere. Giorgio Napolitano non lo farà. Ma il prossimo?