BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

“Prima di tutto, siamo uomini”. Intervista con Lilian Thuram

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Alzi la mano chi, vedendolo giocare e sentendolo parlare, non ha fatto il tifo, almeno una volta, per Lilian Thuram! Non occorre essere francesi, parmensi, juventini o tifosi del Barcellona per apprezzare le doti di questo figlio della Guadalupa, arrivato in Francia all’età di nove anni e venuto in Italia a trascorrere gli anni d’oro della sua carriera da calciatore, prima nel Parma e poi nella Juventus, regalando prestazioni di altissimo livello ma, soprattutto, riflessioni sul razzismo e sulla necessità di un convivenza civile fra le persone che sono oggi alla base del suo impegno nella fondazione che porta il suo nome. Ha pubblicato di recente un libro, intitolato “Per l’uguaglianza – Come cambiare i nostri immaginari”, si reca spesso nelle scuole e si batte affinché almeno i bambini non vengano contagiati dai germi di quest’infezione che sta prendendo sempre più piede in un’Europa squassata dalla crisi e ormai in guerra con se stessa. Siamo lieti che nella Francia di Marine Le Pen ci sia qualcuno in grado di offrire un modello radicalmente alternativo. Purtroppo non è un politico, almeno per ora.

Lei ha scritto un libro dal titolo: “Per l’uguaglianza”. Che valore ha per lei l’uguaglianza nella società odierna?
L’uguaglianza è il valore che stiamo cercando tutti. Da quando sei bambino, sei consapevole che, all’interno di una collettività, l’uguaglianza è un valore fondamentale perché, se viene meno questo principio, rimane solo la legge del più forte.

Lei ha scritto che il suo impegno contro il razzismo è nato da prima che si ritirasse dall’attività sportiva. Quando è sorto in lei il desiderio di occuparsi in prima persona di quest’argomento?
Prima di parlare di questo, devo raccontarle un’esperienza che ho vissuto. Io sono nato in Guadalupa nel 1972, sono arrivato a Parigi all’età di nove anni e lì ho preso coscienza di essere nero perché in Guadalupa la maggior parte delle persone aveva il mio stesso colore della pelle. All’epoca, quando sono arrivato in Francia, veniva trasmesso in televisione un cartone animato che aveva per protagoniste due mucche: una nera molto stupida, Noiraude, e una bianca molto intelligente; qualche compagno di scuola, pensò bene di cominciare a chiamarmi col nome della mucca nera e io ero molto triste, tanto che una volta tornai a casa e chiesi a mia madre per quale motivo il colore della mia pelle fosse visto in maniera negativa. E lei mi rispose: sono razzisti, le cose non possono cambiare. Non era stata una buona risposta per un bambino di nove anni perché lasciava intendere che le razze sono una fatalità e che non si può fare niente. Quest’esperienza mi ha fatto capire che dovevo comprendere le ragioni del razzismo e così, a poco a poco, leggendo libri, crescendo, mi sono reso conto che il razzismo è dovuto a una storia che ti chiude dentro il colore della tua pelle. Quando un bambino ti fa capire con tono dispregiativo di essere nero, vuol dire che lui si vede come un bianco e questo è molto importante. Quando ci si chiude dentro questa storia del bianco e del nero, il nero viene, per forza di cose, rinchiuso in un guscio di inferiorità, dovuto alla storia della schiavitù, alla costruzione della gerarchia fra razze in base agli studi scientifici del Diciannovesimo secolo sul colore della pelle, alla colonizzazione e chiude i bianchi in un guscio di presunta superiorità. Tutto questo avviene in maniera inconscia, vale lo stesso discorso che vale per il sessismo: durante i secoli è stato detto che gli uomini erano superiori alle donne e questo pregiudizio è arrivato fino ai giorni nostri. Quando mi sono voluto occupare di questo, all’epoca giocavo nel Barcellona, ho costituito questa fondazione per andare a parlare con i bambini nelle scuole, mosso anche dal fatto che quando giocavo in Italia e i primi tempi in Spagna, c’erano delle scuole che mi invitavano ad andare a parlare di questa tematica.

Lei, all’inizio del suo libro, pone una citazione di Albert Einstein, il quale, quando gli chiesero a quale razza appartenesse, rispose: umana. Sia in quest’opera che ne “Le mie stelle nere”, racconta che quando si reca in una scuola, domanda quante siano le razze e le viene risposto “Quattro: bianca, nera, gialla e rossa”, intravede in queste parole la base del razzismo. Come può intervenire la scuola nella lotta al razzismo?
È abbastanza facile: basta imparare a parlarne. Credo che il problema del razzismo, del sessismo e dell’omofobia sia dovuto al fatto che molte persone pensano che sia difficile parlarne: io ritengo che non sia così, che si debba raccontare la storia della lotta per l’uguaglianza perché bisogna dire ai bambini che l’uguaglianza è un valore che si guadagna. Generazione dopo generazione, c’è un lavoro da compiere per fare capire che, prima di tutto, siamo esseri umani. Tante volte, per esempio, io entro in una scuola e mi ispiro a un episodio come le manifestazioni di qualche tempo fa in Francia contro il matrimonio gay: chiedo ai bambini chi non sia d’accordo con l’idea del matrimonio gay e qualche bambino alza la mano; chiedo loro per quale motivo non siano d’accordo e loro mi rispondono che non è giusto, che la religione ha detto così, che sennò poi vogliono poter adottare i bambini e via dicendo. Allora io domando loro: vi sembra giusto che voi abbiate più diritti di me e che io abbia più diritti di loro? E loro mi dicono di no. Al che spiego loro che se è vero che io e loro dobbiamo avere gli stessi diritti, la cosa non può cambiare se scoprono che sono omosessuale, e loro cominciano a riflettere sul fatto che stanno considerando quella persona prima come un omosessuale che come un essere umano. Dico loro di riflettere perché in passato si giudicavano le persone in base al colore della pelle e i neri non avevano gli stessi diritti degli altri mentre le donne non avevano il diritto di votare in quanto donne. Quando arrivi a pensare che un uomo non possa avere più diritti di un altro uomo, hai compreso il valore dell’uguaglianza ma quando poi cerchi di descrivere una persona in base a una serie di caselle mentali (sessualità, genere, religione), viene giù tutto. Riflettendo sul tema dell’uguaglianza, bisogna sempre tener presente che una persona è, prima di tutto, un essere umano: quando dico questo, i bambini cominciano a ragionare e cambiano idea. I bambini capiscono in fretta, ma noi siamo stati educati e qualche volta siamo cresciuti senza capire tutto questo, anteponendo, nell’osservare il prossimo, il suo essere uomo o donna, italiano o musulmano, bianco o nero. L’educazione scolastica deve ricordare questa cosa molto semplice: se non riusciamo a vedere l’essere umano prima di tutto come tale, è perché siamo condizionati da pregiudizi atavici, da una storia molto lunga che porta tante persone a pensare, per l’appunto, che esistano quattro razze, tracciando una divisione fra esseri umani e inducendo qualcuno a ritenere che il suo gruppo sia migliore rispetto agli altri. Se la scuola svolge fino in fondo il proprio compito, si può comprendere la vera natura dei problemi attuali.

Nel libro, c’è un racconto molto bello (“Un calcio senza frontiere”) di Arsène Wenger, in cui lo storico allenatore dell’Arsenal asserisce: “Uno sportivo può essere figlio di un senzatetto e di una madre alcolista, ma se è bravo ha più chance di giocare nella nazionale che di lavorare in banca. In questo senso lo sport ha una giustizia reale, non si può barare. Permette di realizzare i sogni di persone che hanno in sé qualche cosa, e al contempo di trascendere e superare tutti gli ostacoli che di solito ci impediscono di vedere il mondo”. È davvero così?
Diciamo che nel mondo del calcio, glielo dico da ex calciatore, ciò che conta sono le tue capacità: non si bada al tuo colore della pelle, alla tua religione o alla tua nazionalità perché quando una squadra, soprattutto una grande squadra, sceglie i giocatori, li seleziona unicamente in base alle loro competenze sul campo. Nel resto della società, questo a volte non avviene: le persone sono soggette a discriminazioni spesso davvero intollerabili. Prendiamo un episodio accaduto di recente negli Stati Uniti, dove un bambino nero è stato assassinato dalla polizia mentre giocava con una pistola giocattolo. Cosa ci dice questa storia? Ci dice che in America un padre o una madre non possono più acquistare una pistola giocattolo a un bambino nero perché sennò lo sottopongono a rischi impensabili per un suo coetaneo bianco. Tutto questo è dovuto a una storia, quella degli Stati Uniti, in cui la questione razziale ha da sempre un peso enorme, il che influisce tuttora sull’immaginario collettivo. Il poliziotto che ammazza il bambino nero ha una storia dietro: una storia collettiva di segregazione e discriminazione durata per secoli. Ancora oggi, il fatto di essere bianco o nero, in America, cambia l’immaginario collettivo: sono sicuro che, se si fosse trattato di un bambino bianco, quel poliziotto non gli avrebbe sparato.

Nel ’98, lei rispose per le rime a Jean-Marie Le Pen, allora leader del Front National, che si lamentava per l’eccessiva presenza di giocatori di colore nella Nazionale francese. Come si spiega, dunque, l’ascesa della figlia Marine, oggi da molti indicata come possibile futura presidentessa della Repubblica? Perché è venuto meno nella popolazione il rifiuto nei confronti del Front National in nome dei “valeurs de la République”?
Abbiamo vissuto un cambiamento d’epoca. La crisi economica sta squassando l’Europa e ciò che mi dispiace è che le persone dimentichino facilmente la natura dei fatti. Il razzismo si basa sempre su una forma di discriminazione. Quando c’è una crisi economica, le persone che hanno un vantaggio, per via della competizione insita negli esseri umani, vogliono squalificare ancora di più coloro che sono già in difficoltà. Stiamo vivendo questo: non accade soltanto in Francia. Ci sono persone che pretendono di passare avanti ad ogni costo ma non dicono mai quale sia il punto qualificante della loro superiorità. E il bello, tornando alla classica dicotomia fra bianchi e neri, è che alcuni dicono: “I neri sono così” ma loro non si qualificano mai come bianchi. Il razzismo trionfa in questa fase storica perché ci sono persone che pretendono di passare avanti basandosi su una diversità non ben specificata. In una società, ci sono sempre persone che si battono per l’uguaglianza e persone che non la vogliono e il problema è che, spesso, la maggior parte della gente non si preoccupa di quest’argomento. All’inizio del mio libro, visto che prima citavamo Einstein, ho posto una sua frase che recita: “Il mondo è un posto pericoloso in cui vivere, non a causa di coloro che fanno del male, ma di quelli che stano a guardare e lasciano che accada”. Purtroppo, c’è sempre più gente che guarda e non fa niente quando, invece, sarebbe importante parlare, discutere, riflettere perché Marine Le Pen ha senz’altro un potere ma un potere ancora più grande ce l’hanno le persone che poi scelgono di votarla.

Un’altra delle sue polemiche investì Sarkozy quando, nel 2005, il futuro presidente della Repubblica definì “racaille” i manifestanti delle banlieue parigine. Com’è oggi la situazione?
Oggi, per fortuna, c’è meno razzismo rispetto a prima. Bisogna capire che in Europa ci sono problematiche legate al razzismo perché ci sono soggetti consapevoli che la società sta cambiando e loro stanno lottando con forza per impedirlo. Ci sono persone che vogliono vivere come si viveva cinquant’anni fa, ma è impossibile. Sa, è un po’ come la crescita di una persona: si è bambini, poi si diventa adolescenti e infine adulti. Queste persone, invece, vogliono fermare la vita ma non è possibile. Bisogna ricordare loro che tutti i paesi d’Europa stanno diventando multietnici e multireligiosi, che lo vogliano o no. Quanto alla vittoria della Francia nel ’98, non bisogna dimenticare che ha cambiato profondamente la mentalità e il modo di sentire della nazione. Venendo alle banlieueu, non possiamo dimenticarci che erano morti fulminati due ragazzi e che l’allora ministro dell’interno Sarkozy si permise di dire a una signora: “Vous en avez assez, vous en avez assez de cette bande de racaille, oui, on va vous en débarrasser!” (“Voi ne avete abbastanza, ne avete abbastanza di questa feccia, sì, adesso ci pensiamo noi a toglierli di mezzo!”). Non bisogna mai dimenticare il punto di partenza, cosa che purtroppo le persone tendono a fare, perché altrimenti non si capisce da dove nasce la rabbia delle persone.

Sempre nel 2005, lei giocava all’epoca nella Juve, il difensore ivoriano del Messina Marc André Zoro si ribellò agli insulti a sfondo razziale subiti dagli spalti e minacciò di abbandonare il terreno di gioco. Lei all’epoca disse che sarebbe bello se non fosse un giocatore di colore a ma un bianco a prendere il pallone in mano e dire basta. A che punto siamo oggi nel calcio?
Diciamo che Zoro fece bene a comportarsi come si comportò ma l’ipocrisia di molti resta perché non è che i giocatori che subiscono gli atti di razzismo possono risolvere il problema. Sembra incredibile, lo so, ma il problema del razzismo non riguarda tanto la vittima quanto l’altro, come il sessismo, perché anche in quel caso non sono le donne a poter risolvere il problema bensì gli uomini, accantonando il loro complesso di superiorità. Mi viene in mente, ancora una volta, la vicenda americana: molti si lamentano perché Barack Obama, nonostante l’impegno profuso, non ha risolto il problema del razzismo; ma il problema del razzismo è anzitutto nella testa delle persone che si sentono superiori, non lo può risolvere Obama! Ci vorrebbe un cambiamento culturale.

Lei ha giocato dieci anni nel nostro Paese. Cosa ricorda con maggior piacere dell’Italia?
Le mie stagioni al Parma e alla Juve, il fatto che vi siano nati i miei figli e, a proposito dell’esperienza a Parma, mi lasci dire che era la prima volta che giocavo fuori dai confini francesi. Vivendo come straniero in un Paese si imparano molte cose, pertanto mi sento un po’ anche italiano. Ho vissuto in Guadalupa, in Francia, in Italia, in Spagna e oggi di nuovo in Francia e da voi ho lasciato tanti amici. Inoltre, il mio impegno nella fondazione che ho costituito è frutto anche degli anni trascorsi in Italia, dunque i miei ricordi sono molto positivi.


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