Ballarò è giunto alla undicesima puntata. In una stagione nella quale i talk show non godono di ottima salute, il programma di prima serata del martedì su Rai3 registra dati di ascolto di tutto rispetto se paragonato alle altre trasmissioni di dibattito politico. Ad affermarlo è il conduttore Massimo Giannini. “Per me che vengo dalla carta stampata è un’avventura completamente nuova ma i risultati fin qui ottenuti sono per me motivo di grande soddisfazione”.
Possiamo già fare dei bilanci?
Ho sempre sostenuto che il campionato sia lungo. Forse è ancora prematuro tracciare un bilancio e sarebbe più opportuno farlo alla fine dell’anno. Ma qualche riflessione provvisoria possiamo cominciare a farla. Sia sui numeri che sul tipo di programma che stiamo facendo e vogliamo fare.
I numeri sono soddisfacenti?
Assolutamente sì. Nella media delle prime dieci puntate Ballarò si conferma di gran lunga il talk show televisivo più visto in prima serata con percentuali che superano il 7 per cento. Nessun talk italiano raggiunge questi livelli e nella media delle prime dieci puntate supera largamente il competitore diretto del martedì (Floris su La7, ndr).
Un risultato in linea con le aspettative?
E’ bene ricordare che, quando nel mese di agosto era uscita la notizia dell’accordo raggiunto fra me e la Rai per la conduzione di Ballarò molti siti e giornali scrivevano che la Rai stava commettendo una follia affidando la conduzione del programma a un giornalista della carta stampata. Con una domanda ricorrente: che cosa succederà dopo la prima puntata quando il programma su La7 avrà doppiato Ballarò e allora salteranno nell’ordine Giannini, Vianello e Gubitosi? Questo era il mood di inizio agosto. Dopo dieci puntate la situazione è esattamente opposta rispetto al risultato che qualcuno si aspettava.
La crisi del talk show è tuttavia un fatto ineludibile
Non da oggi, già nel 2013 i dati di ascolto registravano una forte flessione e Ballarò l’anno scorso ha perso un milione di spettatori. E adesso abbiamo ben quattordici talk nell’arco della settimana se consideriamo le prime serate, le seconde e le fasce del mattino.
La disaffezione quindi è legata ad un eccesso di offerta?
E’ così ma non solo. La causa è anche nel disinteresse per il ciclo politico che stiamo vivendo. Si è appena votato in Emilia Romagna e in Calabria. Non le voglio mettere rigorosamente in relazione ma le due percentuali sono indicative di una forte disaffezione nei confronti di una politica che non produce né decisioni né tantomeno contrapposizioni: la stagione del berlusconismo è finita e i talk non possono più contare sullo scontro fra berlusconiani e antiberlusconiani che ha animato a lungo il dibattito politico. Pertanto il combinato disposto di questi due fattori, l’eccesso di offerta e il disamore dell’opinione pubblica nei confronti di questa politica produce una situazione di sofferenza per gli stessi talk.
C’è una soluzione per invertire la tendenza?
Penso ci sia la necessità di cercare forme nuove di racconto della società e della crisi che stiamo attraversando. Da questo punto di vista sono sempre più convinto che l’idea di portare la società italiana negli studi televisivi sia vincente. Il collegamento in diretta da luoghi, situazioni e contesti che meritano di essere raccontati è la scelta che abbiamo deciso di intraprendere all’inizio della stagione, e la rivendico. Così come, oltre agli ospiti e al parterre, il valore indiscusso dei servizi fatti dagli inviati soprattutto dal punto di vista dell’economia. Perché ancora una volta questa stagione ci offre una fase difficilissima che combina recessione e deflazione, la peggiore che si possa immaginare e che ci spinge a interrogarci su cosa ne sarà dei nostri soldi.
A proposito dei servizi degli inviati, due settimane fa hai introdotto il tuo editoriale citando la giornalista Francesca Fagnani che dopo un’intervista per Ballarò ha ricevuto pesanti intimidazioni. Hai detto che in momenti come questi il giornalismo diventa una missione. Oggi per chi esercita la nostra professione tenere la schiena dritta è più difficile?
Non penso sia oggi più o meno difficile. Credo che debba essere un prerequisito irrinunciabile per chiunque fa il nostro mestiere, una qualità che si deve avere sempre e a prescindere. C’è stata una lunga stagione del conflitto fra Berlusconi e “il resto del mondo”. Con l’ex Cavaliere portatore di un colossale conflitto di interessi: era il principale azionista di un gruppo editoriale mediatico privato e al tempo stesso, in quanto presidente del consiglio, titolare della proprietà azionaria del servizio pubblico. Allora serviva una schiena drittissima. E oggi l’atteggiamento non deve cambiare. La schiena dritta ci vuole per definizione e nei confronti di tutti i poteri, politico, economico, finanziario e finanche, come nel caso che citavi, mafioso e criminale. Mettersi in gioco a viso aperto è l’essenza di chi fa giornalismo.