Non è soltanto “Libertà e giustizia” a denunciare e maledire la devastazione della democrazia operata, da almeno vent’anni a questa parte, dal diffondersi, nei partiti e nelle istituzioni, di una cultura mafiosa. Alla reazione sdegnata che ha sempre fatto seguito agli scandali del passato si aggiunge ora, anche alla base del partito di maggioranza, una grave preoccupazione per la perdita di significato che ne deriva, non solo alla partecipazione al voto, ma a qualunque forma di partecipazione e di impegno politico. Giacché quella che va rivelando l’inchiesta sul “Mondo di mezzo” non è più la patologica “mafia dei colletti bianchi” , che è sempre esistita, ma il radicarsi quasi “fisiologico” di meccanismi mafiosi nel comportamento ordinario della politica e della amministrazione pubblica.
Se ne è parlato a lungo ieri sera nei locali molto affollati del circolo Pd Giubbonari, al centro storico di Roma, dove era ospite il procuratore aggiunto della capitale Giancarlo Capaldo, quarant’anni al servizio della giustizia, autore nel 2013 di un libro dal titolo eloquente, “Roma mafiosa, cronache dell’assalto criminale allo Stato”. Dove si racconta la trasformazione di una città in cui le mafie italiane e straniere sono sbarcate da tempo, trovando la strada segnata fin dagli anni settanta dalla “banda della Magliana”, ma inaugurando una strategia modellata sul nostro contesto socio-politico. In pieno accordo tra loro, senza contendersi o dividersi il territorio, hanno puntato direttamente ai luoghi del potere, non più come burattinai occulti ma portando i loro uomini direttamente nelle file della politica, dell’amministrazione, delle istituzioni, in una parola dello Stato.
Una mutazione genetica, ha ribadito ieri Capaldo, che a partire dalla fine della stagione stragista e dall’avvio della cosiddetta “trattativa”, ha adottato un approccio sottotraccia, sempre più pervasivo, alle “stanze dei bottoni”. Quella che riempie in questi giorni le pagine dei giornali è quindi, secondo il procuratore, la presa di conoscenza tardiva di una macchina che funziona da anni, ma volutamente trascurata o rimossa dai media. A confermare la sua diagnosi, ho trovato in rete la testimonianza di un altro illustre magistrato, Piergiorgio Morosini, che nel 2012, nel saggio intitolato “Il Gotha di Cosa Nostra. La mafia del dopo Provenzano nello scacchiere internazionale del crimine”, scriveva: “Il comportamento delle mafie ormai non differisce molto da quello degli altri gruppi di potere, gruppi di interesse e lobby. Di fatto è la cultura mafiosa ad avere condizionato la politica nell’atteggiamento, nelle procedure e nel modo di fare affari. La mafia esercita un’influenza culturale egemonica, è arrivata a fornire il modello per la regolamentazione dei rapporti di forza tra politica ed imprenditoria e tra imprenditori stessi… La relazione simbiotica che nasce da questo rimestamento ha reso i gruppi mafiosi e quelli legali pressoché indistinguibili, immersi nello stesso brodo” .
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