Ho sempre l’impressione o il sentimento della fragilità degli esseri viventi, come se ci volesse una energia formidabile perché possano stare in piedi istante dopo istante”. Così racconta la sua poetica esistenzialista Alberto Giacometti in mostra a Milano fino al 1 febbraio 2015 alla GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Occasione unica per raccontare l’artista che ambiva dedicarsi alla scultura per comprenderla, per superarla e per liberarsene. Scultore, disegnatore, pittore, pensatore, un unicum nel novecento, capace di mordere la realtà attraverso la sua opera fatta di studi sulla figura umana, sul ritratto, sulla forma stessa dell’occhio -la sola che può raccontare esattamente lo sguardo- una ricerca necessaria per difendersi e per avanzare contro la morte vissuta come una minaccia per l’equilibrio dell’uomo e dell’artista, un uomo che vacilla e che cadrà.
Realizzare teste, per colmare l’impossibilità di dipingere o scolpire ciò che vedeva, teste di uomini e di donne, quelle dei modelli a lui familiari, il padre, la madre, la sorella Ottilia, il fratello Diego, la moglie Annette: “Teste così come i miei occhi le vedono”.
Uno studio sull’uomo che lo accompagnerà per tutta la vita, personaggi scarnificati, erosi, persi nel tormento di esistere. La scultura di Giacometti -riposa sul vuoto- nessuna collocazione, figure vaganti, figure che i nostri occhi possono avvolgere, vivere nella loro interezza, figure sottili che si allungano verso l’alto, verso un confine invisibile, ma che poggiano su piedi tramutati in basi solide ancorate alla terra in un dialogo intimo che il maestro racconta: “Una scultura non è un oggetto, è un interrogativo, una domanda, una risposta. Non può mai essere né finita né perfetta”.
Giacometti, nato in Svizzera nel 1901 da una famiglia di artisti, non appartiene a nessuna corrente, anzi le vive come ostacolo alla libera espressione, come una dottrina assurda, conosce e ama l’arte primitiva e l’arte antica, i disegni che realizza nel suo primo viaggio in Italia nel 1920 ne sono la prova più evidente.
Giotto per la drammatica tenerezza e Cezanne per la tridimensionalità dei corpi resteranno le sue icone, sfiora Picasso e il cubismo, vive e attraversa Breton e il surrealismo, ma resta poeticamente vicino a Sartre e Camus al pensiero di chi ha il senso della transitorietà dell’uomo, della fragilità esistenziale.
Inquietudine legata anche alla malattia che lo aveva colpito a diciassette anni una parotite che lo aveva reso sterile, quella impossibilità di procreazione di essere padre.
Vive a Parigi, già dai primi anni venti, mangia in un caffè, lavora nel suo piccolissimo Atelier con una immensa finestra in Rue Hyppolite Maindron, nel Dialogue en 1934 Breton gli chiede ” Che cos’è il tuo Atelier” e Giacometti risponde ” Sono due piccoli piedi che camminano” la mattina disegna e il pomeriggio scolpisce, le foto di Cartier-Bresson che lo ritraggono raccontano minuziosamente la sua esistenza, i suoi occhi profondi, i suoi capelli indomabili, impolverati dal gesso proprio come le sue dita ed il suo volto, il suo essere così simile alle sue sculture.
Sculture e pitture che mutano nel tempo, come racconta il percorso della mostra, che va dalle opere della fine degli anni venti come “Sfera sospesa” e “La coppia” -figlie di una visione più intimista ed esistenzialista- , ai ritratti intrisi della ricerca inarrestabile della rassomiglianza assoluta, sino all’abbandono della verticalità della figura sostituita da una drammatica e radicale orizzontalità.
Giacometti tornerà poi allo studio del vero -dell’oggetto reale- che più si guarda, più muta, più diventa ignoto in una battaglia in cui convivono e soccombono l’ artista e il soggetto, perché come lui stesso racconta ” è nella fragilità che le mie sculture diventano realistiche”
Ed infine il perdersi negli anni del dopoguerra nell’analisi dell’intima relazione tra spazio e corpo, un mutamento nella visione di tutte le cose come nelle opere”La Radura” e “Grande donna IV”
Giacometti, il pensatore, l’uomo che da vita a sublimi collaborazioni con René Char, Bataille e Genet abita meravigliosamente la descrizione che quest’ultimo di lui ci regala nel saggio L’atelier di Alberto Giacometti: ” Ai miei occhi l’opera di Giacometti rende il nostro universo ancora più insopportabile: sembra infatti che questo artista abbia saputo rimuovere il velo che offuscava il suo sguardo per additare ciò che resterà dell’uomo quando ogni apparenza fallace sarà caduta”.